Tasslehoff cominciò a tremare. Un’orribile sensazione di disagio gli si diffuse dallo stomaco a tutto il corpo, un gemito gli sfuggì dalle labbra. Schiacciandosi una mano contro la bocca, così da impedirsi di urlare, il kender si appiattì contro il muro e si convinse che sarebbe morto in solitudine, lì al buio.
Caramon infilò il suo grande corpo nella porta, aprendola all’inizio soltanto d’uno spiraglio, nel caso in cui i cardini si fossero messi a cigolare. Ma non vi fu il minimo rumore. Tutto, nella stanza, era silenzioso. Nessun rumore da nessuna parte del Tempio entrava in quella stanza, come se tutta la vita fosse stata inghiottita da quella soffocante oscurità. Caramon si sentì bruciare i polmoni, e ricordò vividamente il giorno in cui era quasi morto nel Mare di Sangue di Istar. Ma, con uno sforzo, mantenne regolare il respiro, evitando di ansimare fragorosamente.
Attese per qualche istante sulla soglia, cercando di placare il cuore che gli batteva frenetico, e diede un’occhiata alla stanza. La luce di Solinari entrava attraverso uno squarcio nelle pesanti tende che coprivano la finestra. Una sottile scheggia di luce argentea tagliava l’oscurità, penetrando come una sottile incisione che conduceva dritta al letto all’estremità opposta della stanza.
La mobilia, là dentro, era scarsa. Caramon vide la massa informe d’una pesante veste nera distesa sopra una sedia di legno. Accanto ad essa c’era un paio di stivali di cuoio morbido. Nessun fuoco ardeva dietro la grata, la notte era troppo calda. Stringendo l’elsa del pugnale, Caramon lo estrasse con lentezza e attraversò la stanza, guidato dalla luce argentea della luna.
Un segno degli dei, pensò Caramon, con il battito del cuore che quasi lo soffocava. Provò una sensazione di paura, una paura quale non aveva mai sperimentato nella sua vita: una paura che gli torceva lo stomaco, che gli strizzava le budella e faceva sussultare i muscoli e gl’inaridiva la gola.
Con un empito di disperazione si costrinse a inghiottire così da non tossire e svegliare il dormiente. Devo agire in fretta! si disse, già afferrato dal timore di sentirsi male o, addirittura, di perdere i sensi. Attraversò la stanza. Il soffice tappeto soffocò il rumore dei suoi rapidi passi. Adesso poteva vedere il letto e la nera figura addormentata sopra di esso. Poteva vedere la figura con chiarezza, la luce della luna tracciava una linea nitida sul pavimento fino alla lettiera, sopra la coperta, piegandosi poi verso l’alto fino alla testa appoggiata sul cuscino, con il cappuccio calato sul viso per escludere la luce.
«Così gli dei mi indicano la strada,» mormorò Caramon, inconsapevole di aver parlato ad alta voce.
Si avvicinò furtivo al fianco del letto, ristette, col pugnale stretto nel pugno, ascoltando il tranquillo respiro della vittima, cercando di avvertire qualche cambiamento nel ritmo profondo e costante che gli avrebbe detto d’essere stato scoperto.
Dentro e fuori... dentro e fuori... il respiro era forte, profondo e pacifico. Il respiro di un uomo giovane e sano. Caramon rabbrividì ricordando quanto avrebbe dovuto essere vecchio quello stregone, rievocando le storie tenebrose che aveva sentito raccontare su come Fistandantilus rinnovava la sua giovinezza. Il respiro dell’uomo continuava perfettamente regolare, non c’era nessuna interruzione, nessuna accelerazione. La luce della luna entrava, gelida, silenziosa, sempre uguale, un segno...
Caramon sollevò il pugnale. Un solo colpo, rapido e preciso, affondato in pieno petto, e tutto sarebbe finito. Si protese in avanti, poi esitò. No, ?rima di colpire avrebbe guardato quel viso... il viso dell’uomo che aveva torturato suo fratello.
No! Sciocco! urlò una voce dentro a Caramon. Pugnalalo adesso, presto! Caramon giunse a sollevare una seconda volta il pugnale, ma la mano gli tremava. Doveva vedere quel viso!
Allungando una mano tremante, sfiorò appena il cappuccio nero. Il tessuto era morbido e cedevole.
Lo scostò.
La luce argentea di Solinari toccò la mano di Caramon, poi scivolò sul volto del mago addormentato, inondandolo di radiosità. La mano di Caramon s’irrigidì, diventando bianca e fredda come quella di un cadavere mentre fissava il volto sul cuscino.
Non era il volto d’uno stregone antico e malvagio, coperto dalle cicatrici d’innumerevoli peccati.
Non era neppure il volto di un essere tormentato, la cui vita fosse stata rubata dal corpo per tenere in vita il mago morente.
era il volto di un giovane fruitore di magia, affaticato da lunghe notti trascorse sopra i suoi libri, ma adesso rilassata, immersa com’era in un tranquillo riposo. Era il volto di qualcuno la cui tenace sopportazione del costante dolore era contrassegnata dalle rughe profondamente incise e Inflessibili, un volto che aveva placato con dell’acqua fresca...
la mano che stringeva il pugnale calò fulminea affondando la lama dentro il materasso. Vi fu un urlo selvaggio, subito soffocato, e Caramon cadde in ginocchio accanto al letto, stringendo la coperta con le dita contorte per l’angoscia. Il suo grosso corpo era scosso dalle convulsioni, squassato da frementi singhiozzi.
Raistlin aprì gli occhi e si rizzò a sedere, sbattendo le palpebre al vivo bagliore di Solinari. Si calò ancora una volta il cappuccio sugli occhi, poi, sospirando per l’irritazione, sollevò una mano e con cautela sfilò il pugnale dalla stretta infiacchita di suo fratello.
Capitolo nono.
«Questo è stato davvero stupido da parte tua, fratello mio,» dichiarò Raistlin, rigirando il pugnale tra le dita sottili e studiandolo distrattamente. «Trovo difficile crederlo, perfino da parte tua.»
Inginocchiato sul pavimento accanto al letto, Caramon sollevò lo sguardo sul suo gemello. Il suo volto era smunto, tirato e pervaso d’un pallore mortale. Aprì la bocca.
«Non capisco, Raist,» lo precedette Raistlin, rifacendogli il verso.
Caramon serrò le labbra, il suo volto s’indurì in una maschera cupa e amara. I suoi occhi andarono al pugnale che suo fratello teneva ancora in mano. «Forse sarebbe stato meglio se non avessi scostato il cappuccio,» borbottò.
Raistlin sorrise, anche se suo fratello non se ne accorse.
«Non avevi scelta,» gli rispose. Poi sospirò e scosse la testa. «Fratello mio, pensavi sul serio di poter entrare così facilmente nella mia stanza e assassinarmi mentre dormivo? Tu sai quant’è leggero il mio sonno... è sempre stato leggero.»
«No, non te!» gridò Caramon con voce rotta, sollevando lo sguardo. «Credevo...». Non riuscì a proseguire.
Raistlin lo fissò perplesso, per un attimo, poi d’un tratto cominciò a ridere. Era un’orribile risata, sgradevole e beffarda, e Tasslehoff, che si trovava ancora all’estremità del corridoio, si tappò gli orecchi con le mani nell’udire quel suono, mentre cominciava ad avanzare furtivo lungo il corridoio verso l’origine di quella risata per vedere quello che stava succedendo.
«Tu volevi assassinare Fistandantilus,» disse Raistlin, fissando suo fratello con aria divertita. Rise di nuovo a quel pensiero. «Caro fratello, mi ero dimenticato di quanto puoi essere spassoso.»
Caramon arrossì e si alzò in piedi incerto.
«Avevo intenzione di farlo... per te,» rispose. Avvicinatosi alla finestra, aprì del tutto la tenda e fissò di cattivo umore il cortile del Tempio che risplendeva perlaceo e argenteo alla luce di Solinari.
«Certo,» esclamò Raistlin, una traccia dell’antica amarezza gli s’insinuò nella voce. «Quando mai hai fatto qualcosa che non fosse per me?»
Pronunciando con voce imperiosa un comando, Raistlin fece in modo che la stanza fosse illuminata da una vivida luce che si sprigionò dal Bastone di Magius appoggiato contro la parete in un angolo.
Il mago buttò indietro la coperta e si alzò dal letto. Avvicinandosi alla grata, prò- ; nunciò un’altra parola e le fiamme balzarono fuori dalla pietra nuda. La loro luce arancione illuminò il suo volto esile e pallido, riflettendosi sui! suoi limpidi occhi castani.