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Stringendo la giovane donna fra le braccia, Riverwind la sollevò da terra senza sforzo come se fosse una bambina. La folla cominciò ad acclamare, picchiando i boccali sui tavoli. La maggior parte degli avventori non riusciva a credere alla propria fortuna. Là c’era un Eroe delle Lance in persona, come se fosse stato evocato dalla storia di Otik. E perfino corrispondeva alla descrizione!

Erano tutti incantati.

Poiché nell’abbracciare Tika l’uomo si era buttato il mantello dietro le spalle, adesso tutti erano in grado di riconoscere il Manto del Capo che indossava, le sezioni di pelliccia alternate, in un disegno a V, a cuoio lavorato, ognuna delle quali rappresentava una delle tribù delle pianure sulle quali lui regnava. Il suo bel volto, anche se più vecchio e segnato da quando Tika l’aveva visto l’ultima volta, era bruciato dal sole e dalle intemperie che gli avevano dato un colore bronzeo, e c’era una gioia interiore negli occhi dell’uomo, che aveva trovato nella sua vita la pace che in precedenza aveva cercato per anni.

Tika avvertì una sensazione di soffocamento alla gola e subito si girò, ma non abbastanza in fretta.

«Tika,» disse Riverwind, il suo accento si era ispessito per essere vissuto nuovamente tra quelli del suo popolo, «fa piacere vederti ancora bella e in salute. Dov’è Caramon? Non vedo l’ora di... ebbene Tika, cosa c’è che non va?»

«Niente, niente,» rispose Tika con vivacità, scuotendo i riccioli rossi e sbattendo le palpebre.

«Vieni, ti ho riservato un posto accanto al fuoco. Devi essere esausto e affamato.»

Lo condusse attraverso la folla, parlando senza interruzione, senza mai dargli la possibilità di dire una parola. Inavvertitamente la folla l’aiutò, tenendo occupato Riverwind mentre gli si raccoglievano intorno meravigliandosi del suo mantello di pelliccia, oppure cercando di stringergli la mano (un’usanza che gli Uomini delle Pianure giudicavano barbarica) o di porgergli boccali pieni.

Riverwind accettò tutto stoicamente, mentre seguiva Tika attraverso la folla eccitata, stringendo la bellissima spada di fattura elfa che gli pendeva al fianco. La sua faccia severa divenne d’una sfumatura più cupa, e guardava spesso fuori delle finestre, come se già ardesse dal desiderio di uscire dai confini di quella stanza rumorosa e calda per tornare agli spazi liberi che amava. Ma Tika spinse via con destrezza i clienti più esuberanti e ben presto fece sedere il suo amico vicino al fuoco a un tavolo isolato accanto alla porta della cucina.

«Torno subito,» disse scoccandogli uno smagliante sorriso e scomparve dentro la cucina prima che lui potesse aprire bocca.

Il suono della voce di Otik si levò di nuovo, accompagnato da un forte picchiare. Poiché la sua storia era stata interrotta, Otik stava usando il suo bastone, una delle armi più temute a Solace, per ripristinare l’ordine. Adesso, l’oste era infermo a una gamba, e gli piaceva raccontare anche quella storia, su come era rimasto ferito durante la caduta di Solace quando, stando al suo resoconto, aveva respinto da solo le armate degli invasori draconici.

Afferrando un tegame pieno di patate speziate e affrettandosi a tornare da Riverwind, Tika lanciò un’occhiata furiosa a Otik. Lei conosceva la Vera storia, su come era rimasto ferito alla gamba quand’era stato trascinato fuori dal suo nascondiglio sotto il pavimento. Ma non l’aveva mai raccontata a nessuno. Nel profondo del suo animo amava il vecchio come un padre. Lui l’aveva accolta e l’aveva allevata quando suo padre era scomparso, offrendole un lavoro onesto quando a lei non restava che il ladrocinio. Inoltre, ricordargli ogni tanto che lei sapeva la verità serviva a impedire che le storie esagerate di Otik arrivassero a nuove vette.

La folla si era abbastanza calmata quando Tika tornò, dandole la possibilità di parlare con il suo vecchio amico.

«Come stanno Goldmoon e tuo figlio?» gli chiese con vivacità, vedendo che Riverwind la guardava, studiandola con attenzione.

«Goldmoon sta bene e ti manda tutto il suo affetto,» rispose Riverwind con voce bassa da baritono.

«Mio figlio,» i suoi occhi s’illuminarono d’orgoglio, «ha soltanto due anni ma è già alto così, e sta in groppa al cavallo meglio di tanti guerrieri.»

«Avevo sperato che Goldmoon venisse con te,» disse Tika con un timro che non aveva avuto intenzione di far sentire a Riverwind.

L’alto uomo delle pianure mangiò il proprio cibo in silenzio per qualche istante, prima di rispondere.

«Gli dei ci hanno benedetti con altri due bambini,» disse infine, fissando Tika con una strana espressione negli occhi scuri.

«Due?» Tika parve perplessa. «Oh, gemelli!» gridò con gioia. «Come Caramon e Rais...»

S’interruppe di colpo, mordendosi il labbro.

Riverwind corrugò la fronte e tracciò nell’aria il segno che allontanava il male. Tika arrossì e guardò altrove. C’era un rombo nelle sue orecchie. Il calore e il rumore la stordivano. Inghiottendo l’amaro che aveva in bocca, si costrinse a chiedere altre notizie di Goldmoon e, dopo un po’, riuscì perfino ad ascoltare la risposta di Riverwind.

«... ancora troppo pochi chierici nella nostra terra. Ci sono molti convertiti, ma i poteri degli dei arrivano con lentezza. Goldmoon lavora duramente, troppo duramente secondo me, ma diventa ogni giorno più bella. E le bambine, le nostre figlie, hanno entrambe i capelli argento-dorati.»

Bambini... Tika ebbe un triste sorriso. Vedendo il suo viso Riverwind si azzittì, finì di mangiare e spinse da parte il piatto. «Niente mi piacerebbe di più che prolungare questa visita, disse lentamente, ma non posso rimanere lontano per troppo tempo dal mio popolo. Tu conosci l’urgenza della mia missione. Dov’è Cara...?»

«Devo andare a controllare la tua stanza,» disse Tika, alzandosi così in fretta che urtò il tavolo, facendo traboccare il boccale di Riverwind. «Quel nano dei burroni dovrebbe preparare il letto. È probabile che lo trovi addormentato come un ghiro...»

Si affrettò ad allontanarsi. Ma non salì di sopra nelle stanze. In piedi, fuori della porta della cucina, mentre il vento della notte raffreddava le sue guance febbricitanti, fissò il buio. «Fate che se ne vada!» bisbigliò. «Per favore...»

Capitolo secondo.

Forse, ciò che Tanis temeva di più era la vista della Locanda dell’Ultima Casa. Qui tutto era cominciato tre anni prima, in autunno. Qui, lui, Flint e l’irrefrenabile kender, Tasslehoff Burrfoot, erano giunti quella notte per incontrare dei vecchi amici. Qui il suo mondo si era capovolto, per non raddrizzarsi mai più.

Ma mentre cavalcava verso la locanda, Tanis sentì alleviarsi le sue paure. Era cambiata talmente che era come arrivare in un luogo estraneo, un luogo che non ospitava ricordi. Si ergeva sul terreno invece che fra i rami di un grande vallenwood. C’erano state nuove aggiunte, altre stanze erano state costruite per far fronte all’afflusso dei viaggiatori, aveva un nuovo tetto, assai più moderno nel disegno. Era stata purgata da tutte le cicatrici della guerra, insieme ai ricordi.

Poi, proprio mentre Tanis cominciava a rilassarsi, la porta principale della locanda si aprì. La luce ne uscì a fiotti, formando un dorato sentiero di benvenuto, l’odore delle patate speziate e il rimbombare delle risate gli giunsero insieme alla brezza della sera. I ricordi tornarono impetuosi, e Tanis chinò la testa, sopraffatto.

Ma, forse per sua fortuna, non ebbe il tempo di rivangare il passato. Quando lui e la sua compagna si avvicinarono alla locanda, uno stalliere corse fuori e afferrò le redini dei cavalli.

«Cibo e acqua,» disse Tanis, scivolando stanco giù dalla sella e lanciando una moneta al ragazzo.

Si stiracchiò per alleviare i crampi muscolari. «Ho mandato un messo perché mi fosse preparato un cavallo riposato. Il mio nome è Tanis Mezzelfo.»

Il ragazzo sgranò gli occhi. Già era rimasto con lo sguardo puntato sulla sfavillante armatura e sul ricco mantello che Tanis indossava. Adesso alla sua curiosità si sostituirono l’ammirazione e la soggezione.