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Philip José Farmer

Il fabbricante di universi

(The Maker Of Universes, 1965)

CAPITOLO I

Lo spettro di uno squillo di tromba chiamava di là della porta. Le sette note erano deboli e lontane: il prodotto ectoplasmico di un fantasma d’argento, se è il suono la sostanza di cui sono fatte le ombre.

Robert Wolff sapeva che, al di là della porta, non potevano esserci né trombe né suonatori. Un minuto prima, aveva guardato nel ripostiglio. Aveva visto solo il pavimento di cemento, le pareti bianche, le crociere, uno scaffale e una lampadina.

Eppure aveva udito le note di tromba, deboli come se il suono fosse giunto dall’altra parte del mondo. Era solo, così nessuno poteva confermargli la realtà di qualcosa che, lui sapeva, era impossibile. La stanza nella quale si trovava, immobile, incantato, era il posto più assurdo per un’esperienza del genere. Ma lui, come soggetto, era abbastanza adatto. Negli ultimi tempi, sogni spettrali avevano turbato il suo sonno. Durante il giorno, strani pensieri e frammenti d’immagini passavano nella sua mente, fugaci ma vividi e stupefacenti. Erano indesiderati, inattesi e irresistibili.

Era preoccupato. Essere sulle soglie della pensione e soffrire di un esaurimento nervoso era inconcepibile. Comunque, poteva accadere a luì quello che era accaduto ad altri, e così l’unica soluzione restava quella di una buona visita medica. Ma lui non riusciva ad agire secondo ragione. Continuava ad attendere, e non diceva niente a nessuno, meno che mai alla moglie.

In quel momento, si trovava nel soggiorno di una casa, nuova, che faceva parte della Residenza Hohokam, e fissava la porta del ripostiglio. Se il corno avesse suonato ancora, avrebbe aperto la porta e avrebbe controllato se all’interno non si trovava nulla. Allora, sapendo che era stata la sua mente malata a creare le note, avrebbe abbandonato l’idea di comprare quella casa. Avrebbe ignorato le isteriche proteste della moglie, e sarebbe andato prima da un medico generico, quindi dallo psichiatra.

Sua moglie lo chiamò:

«Robert! Non è ora di venire su? Avanti, sei rimasto laggiù abbastanza. Voglio parlare a te e al signor Bresson!»

«Un attimo, cara» disse lui.

Lei chiamò di nuovo, questa volta così da vicino che egli fu costretto a voltarsi. Brenda Wolff era in cima alle scale che portavano nel soggiorno. La donna aveva la sua stessa età, sessantasei anni. La bellezza che aveva posseduto in passato, ormai era sepolta dal grasso, dalle vene grosse, dalle rughe, dai cosmetici, da un paio di occhiali spessi, e dai capelli grigio-acciaio. Wolff batté le palpebre quando la vide, come gli accadeva ogni volta che vedeva la sua immagine riflessa dallo specchio: il cranio calvo, le pieghe amare agli angoli della bocca, gli occhi arrossati e grinzosi. Era questo il suo dramma? Era incapace di adattarsi a ciò che accadeva a tutti gli uomini, piacesse o no? Oppure, quello che odiava in Brenda e in se stesso non era la decadenza fisica, ma la consapevolezza di non avere realizzato, nessuno dei due, i sogni di gioventù? Non c’era modo di evitare l’accanirsi del tempo sulla sua carne, ma il tempo era stato clemente con lui, permettendogli di vivere tanto a lungo. Non poteva accampare come scusa il fatto di non avere avuto tempo, di fronte al suo mancato raggiungimento di una specie di bellezza morale. Il mondo non aveva colpa del suo stato. Lui e lui solo era il responsabile; almeno, aveva la forza di affrontare questo dato di fatto. Non rimproverava l’universo, o quella parte di universo che era sua moglie. Lui non gridava, non piagnucolava, non imprecava come faceva Brenda.

C’erano stati momenti nei quali sarebbe stato facile lamentarsi o piangere. Quanti altri uomini non potevano ricordare nulla, prima dei vent’anni? Lui pensava che fossero stati vent’anni, perché i Wolff, che lo avevano adottato, lo avevano giudicato di quell’età. Era stato scoperto a vagare tra le colline del Kentucky, presso il confine con l’Indiana, dal vecchio Wolff. Lui non sapeva chi era, né come fosse giunto là. Kentucky, e perfino Stati Uniti d’America, erano state per lui parole prive di ogni significato: come, d’altronde, l’intera lingua inglese.

I Wolff l’avevano preso con loro, e avevano notificato il ritrovamento allo sceriffo. Le autorità avevano indagato, senza riuscire a identificarlo. In un altro momento, la sua storia avrebbe polarizzato per settimane l’interesse nazionale; ma in quel periodo, la nazione si era trovata in guerra con la Germania, e aveva avuto cose più importanti cui pensare. Robert, battezzato così in ricordo del figlio morto dei Wolff, aveva lavorato nella fattoria. Era anche andato a scuola, perché aveva perduto completamente il ricordo della sua istruzione.

Ancora peggio della sua mancanza di regolari cognizioni, era stato il fatto che lui non sapeva assolutamente come comportarsi. Ripetutamente aveva messo in imbarazzo o offeso gli altri. Aveva subìto il disprezzo, e, a volte, le selvagge reazioni dei contadini, ma aveva appreso rapidamente… e lavorando sodo, con volontà, e anche per la grande forza fisica che mostrava nel difendersi, aveva guadagnato il loro rispetto.

In un tempo incredibilmente breve, come se per lui si fosse trattato semplicemente di ripassare cose già risapute, aveva studiato e aveva superato l’esame di licenza media e quello di diploma. Sebbene il suo periodo di frequenza fosse inferiore di molti anni a quello richiesto dalla legge, aveva affrontato e superato gli esami di ammissione all’università agevolmente. E così era cominciato il suo grande amore per le lingue classiche, un amore che era durato tutta la vita. Più di tutte, egli amava il greco, perché destava sensazioni profonde in lui: col greco, si sentiva perfettamente a suo agio.

Dopo avere ottenuto la laurea all’Università di Chicago, aveva insegnato in numerose università dell’Est e del Midwest. Aveva sposato Brenda, una stupenda ragazza dall’animo affascinante. Almeno, così aveva pensato all’inizio. In seguito, aveva perduto le sue illusioni, ma si sentiva ancora abbastanza felice.

Sempre, comunque, il mistero della sua amnesia e della sua origine lo aveva perseguitato. Per un lungo periodo non gli aveva cagionato alcun fastidio, ma ora, sulla soglia della pensione…

«Robert» disse forte Brenda. «Vieni subito su! Il signor Bresson ha da fare.»

«Sono sicuro che il signor Bresson ha avuto molti clienti desiderosi di rendersi conto personalmente della casa, e a loro comodo» replicò, in tono blando. «O forse hai deciso di non volere la casa?»

Brenda lo fulminò con un’occhiata, poi scomparve, furiosa. Lui sospirò, pensando che, sicuramente, in seguito lei lo avrebbe accusato di averle fatto fare la figura della stupida, di proposito, davanti all’agente immobiliare.

Si voltò nuovamente verso la porta del ripostiglio. Avrebbe avuto il coraggio di aprirla? Era assurdo restare lì, immobile, come un individuo sotto shock o in uno stato psicotico di indecisione. Ma lui non poteva muoversi, tranne che per un sobbalzo che egli fece nell’udire nuovamente il corno modulare le sette note, lamentosamente, più forte di prima.

Il suo cuore batteva con violenza, come se dall’interno qualcuno tempestasse di colpi il suo petto. Si costrinse a sollevare la mano verso la maniglia della porta del ripostiglio, e a tirare. La porta cominciò a scorrere sui cardini. Il rumore provocato dallo spostamento soffocò il suono del corno.

Le bianche pareti di formica erano scomparse. Erano divenute l’ingresso di una scena che lui mai avrebbe potuto immaginare, sebbene la sua origine dovesse trovarsi nella sua mente.

La luce del sole si riversava dall’apertura, sufficientemente grande da permettergli di passare, piegato, dall’altra parte. Piante che sembravano alberi (ma non alberi della Terra) nascondevano parzialmente il paesaggio. Attraverso i rami e le fronde, poteva distinguere un cielo color verde vivo. Abbassò gli occhi per osservare il terreno sotto gli alberi. Sei o sette creature d’incubo erano radunate intorno a un enorme macigno. Era di roccia rossa, ricca di quarzo, e aveva una forma vagamente somigliante a quella di un fungo. I corpi pelosi e deformi di molte di quelle cose erano girati dall’altra parte, ma una era di profilo, stagliata contro il cielo verde. Il suo volto era brutale, primitivo, e l’espressione malevola. C’erano delle protuberanze sul corpo, sul volto e sulla testa, grumi di carne che davano l’impressione dell’incompiutezza, come se il Creatore avesse dimenticato di levigare le orride creature. Le due gambe tozze e corte somigliavano alle zampe posteriori di un cane. Stava tendendo le sue lunghe braccia verso il giovane uomo che era in piedi sulla cima piatta del macigno.