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I selvaggi si fermarono a metà strada, per dare tempo a coloro che erano saliti dall’altra parte di occupare i propri posti. Poi, a un grido dell’uomo dalla maschera di legno, salirono con la massima rapidità possibile. I due assediati non si mossero finché le lance non rimbalzarono sulle pareti di roccia o si conficcarono nella barricata di cadaveri. Wolff lanciò due frecce, Chryseis tre. Nessuna mancò il bersaglio.

Wolff lanciò la sua ultima freccia. Colpì la maschera del capo, che rotolò a terra. Dopo un istante, si tolse la maschera. Sebbene il suo volto fosse ridotto a una maschera di sangue, fu lui a guidare il secondo assalto.

Un ululato spettrale si levò dalla giungla. I selvaggi si fermarono, si girarono, e tacquero osservando la giungla che circondava la collina. Di nuovo, il grido lamentoso rimbalzò tra gli alberi.

Improvvisamente, un uomo dai capelli di bronzo, che indossava soltanto un perizoma di leopardo, uscì come un bolide dalla giungla. In una mano aveva una lancia, e nell’altra un lungo coltello. Dalla spalla gli pendeva un laccio, e alla cintura aveva infilato un arco e una faretra. Dietro di lui, una massa di scimmie dalle lunghe braccia, pelose e dalle spalle larghe si riversò dagli alberi.

Alla vista delle scimmie, i selvaggi urlarono e cercarono di fuggire dall’altra parte della collina. Delle altre scimmie apparvero dall’altra parte; come mascelle fameliche, le due colonne di quadrumani si chiusero sui negri urlanti.

Ci fu una breve lotta. Alcune scimmie caddero con una lancia nel petto, ma quasi tutti i negri abbandonarono le loro armi e cercarono di fuggire o si buttarono a terra tremanti. Ne scamparono soltanto dodici.

Wolff, sorridendo di sollievo, disse all’uomo che indossava la pelle di leopardo:

«E come ti chiamano su questo piano?»

Kickaha gli restituì il sorriso.

«Prova a indovinare.»

Il sorriso scomparve, quando vide il barone.

«Maledizione! Ho impiegato troppo tempo a trovare le scimmie, e poi a trovare voi! Era un brav’uomo, il giudeo; mi piaceva il suo stile. Accidenti! Comunque, gli ho promesso che, se lui moriva, avrei portato le sue ossa nel castello dei suoi padri, e la promessa la manterrò. Non subito, però. Abbiamo alcune cose da sistemare.»

Kickaha chiamò alcune scimmie, che presentò:

«Come vedi» disse a Wolff, «hanno una struttura più simile a quella del tuo amico Ipsewas che a quella delle vere scimmie. Le loro gambe sono troppo lunghe e le loro braccia troppo corte. Come Ipsewas, e a differenza delle grandi scimmie dell’autore preferito della mia adolescenza, hanno un cervello umano. Odiano il Signore per ciò che ha fatto loro: non vogliono solo vendetta, vogliono anche ritornare in un corpo umano.»

Fu soltanto allora che Wolff si ricordò di Abiru. Era scomparso. Probabilmente, era fuggito quando Wolff era corso in soccorso del funem Laksfalk.

Quella notte, intorno al fuoco, Wolff e Chryseis, mangiando arrosto di daino, sentirono parlare del cataclisma che avveniva in Atlantide. Era iniziato col nuovo tempio che il Rhadamanthus di Atlantide aveva iniziato a costruire. Doveva levarsi più in alto di qualsiasi edificio mai sorto su quel pianeta. Il Rhadamanthus aveva radunato tutti i suoi sudditi per la costruzione. Aveva continuato ad aggiungere piano su piano, finché non era parso che volesse raggiungere addirittura il cielo.

Gli uomini si domandavano quando ci sarebbe stato un termine a quel lavoro. Erano tutti schiavi con un solo scopo nella mente: costruire. Eppure non osavano parlare apertamente, perché i soldati del Rhadamanthus uccidevano chiunque si opponesse o non lavorasse. Poi divenne evidente che il Rhadamanthus, nella sua folle mente, aveva concepito qualcosa di ben diverso da un tempio. Il Rhadamanthus intendeva costruire un mezzo per invadere il cielo, il palazzo del Signore.

«Un edificio di diecimila metri?» domandò Wolff.

«Sì. Era impossibile, naturalmente, con la tecnologia di Atlantide. Ma il Rhadamanthus era pazzo; credeva davvero di farcela. Forse era incoraggiato dal fatto che il Signore non appariva da tanti anni, e pensava che forse la diceria sulla scomparsa del Signore era la verità. Naturalmente, i corvi dovevano avergli detto il contrario, ma lui aveva pensato che stessero mentendo per salvarsi.»

Kickaha disse che il fenomeno devastatore che avveniva nell’Atlantide era una prova solare della vendetta del Signore contro il folle piano del Rhadamanthus. Il Signore doveva avere scoperto finalmente i segreti di alcuni apparecchi che si trovavano nel suo palazzo.

«Il Signore che è scomparso doveva avere preso le sue precauzioni, nell’eventualità che un estraneo fosse entrato nel suo palazzo. Ma il nuovo Signore è riuscito finalmente a scoprire il segreto dei comandi degli apparecchi delle tempeste.»

Prova: i giganteschi uragani, tornados, e continue piogge torrenziali che martoriavano il paese. Il Signore doveva essere deciso a eliminare ogni vita da quel piano.

Prima di raggiungere i margini della giungla, incontrarono l’ondata continua dei fuggiaschi. Essi raccontavano storie di tremende catastrofi, di palazzi e colline inghiottiti dalla terra, di uomini spazzati via come fuscelli dai venti, di inondazioni tremende che portavano via ogni traccia di vita e spianavano perfino le alture.

A questo punto, Kickaha e i suoi furono costretti ad affrontare la furia del vento. Le nuvole si chiusero intorno a loro; la pioggia li colpì; i lampi li accecavano, e i fulmini si abbattevano intorno a loro, ovunque.

C’erano anche dei periodi nei quali i fenomeni cessavano. Le energie scatenate da Arwoor dovevano essere compensate, e una tregua era necessaria. In questi periodi relativamente calmi, il gruppo progredì, sia pure a fatica. Incontrarono fiumi tempestosi che trasportavano i resti della civiltà: case, alberi, mobili, carri, cadaveri di uomini, donne, bambini, cani, cavalli, uccelli e animali selvaggi. Le foreste erano sradicate oppure schiacciate dalle scariche dei fulmini. Ogni valle era un ribollire d’acqua; ogni depressione era colma. E un puzzo soffocante riempiva l’aria.

Quando ebbero percorso metà del loro cammino, le nubi cominciarono a diradarsi. Si trovarono di nuovo nel sole, ma in una terra silenziosa nella morte. Solo il ruggito delle acque o il lamento di un uccello che era riuscito a sopravvivere interrompevano l’allucinante silenzio. A volte l’ululato di un essere umano impazzito li faceva rabbrividire: ma questi erano eventi assai rari.

L’ultima nuvola scomparve dal cielo. E il bianco monolito di Idaquizzoorhruz risplendette davanti a loro, a cinquecento chilometri di distanza sulla pianura senza orizzonte. La città di Atlantide… o meglio, quanto restava di essa… era a 150 chilometri di distanza. Ci vollero venti giorni per raggiungerne la periferia, attraverso inondazioni e detriti.

«Il Signore può vederci, adesso?» domandò Wolff.

Kickaha disse:

«Credo di sì, con una specie di telescopio. Sono lieto, comunque, che tu me lo abbia chiesto, perché faremo meglio a cominciare a viaggiare di notte. Anche in questo caso, saremo individuati da loro.»

Indicò un corvo che volava nel cielo.

Attraversando le rovine della capitale, passarono vicino allo zoo imperiale di Rhadamunthus. Alcune gabbie tra le più robuste erano rimaste in piedi, e una di esse conteneva un’aquila. Sul fondo melmoso della gabbia c’era un buon numero di ossa, di piume e di becchi. Le aquile in gabbia avevano superato la fame divorandosi l’un l’altra. La sola sopravvissuta era magra, debole e miserabile, sul trespolo più alto.

Wolff aprì la gabbia, e lui e Kickaha parlarono all’aquila, Armonide. Dapprima, Armonide voleva soltanto attaccarli sebbene fosse indebolita dalle privazioni. Wolff le gettò alcuni pezzi di carne, poi i due nomini continuarono nel loro racconto. Armonide disse che mentivano e che avevano dei progetti umani, e perciò maligni. Quando ebbe però udito per intero il racconto di Wolff, nel quale era doverosamente evidenziato il fatto che l’avevano liberata, mentre avrebbero potuto benissimo passare oltre senza badare a lei, lei cominciò a credere. Quando Wolff le spiegò di avere un piano per vendicarsi del Signore, negli occhi dell’aquila brillò una vivida luce. La idea di attaccare davvero il Signore, forse con successo, era un cibo migliore della stessa carne. L’aquila rimase con loro tre giorni, mangiò, riguadagnò forza, e imparò a memoria, esattamente, quanto avrebbe dovuto riferire a Podarge.