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Wolff senti uno strattone improvviso, e distese le gambe piegate, per dare una spinta addizionale. La traversa si piegò da una parte, facendolo roteare. Podarge, che volava sopra le altre, diede degli ordini. Le aquile regolarono la lunghezza delle funi, per trovare un punto di equilibrio. Dopo pochi secondi, le traverse erano tutte al giusto livello.

Sulla Terra questo piano non avrebbe potuto funzionare. Un uccello grosso come un’aquila non avrebbe potuto lanciarsi nell’aria, se non buttandosi da un alto precipizio. E anche in questo caso il volo sarebbe stato lentissimo, forse talmente lento da non permettere un’ascesa. Però il Signore aveva dato alle aquile una muscolatura degna delle loro proporzioni.

Si sollevarono sempre più in alto. La pallida superficie del monolito, che si trovava a un chilometro di distanza, risplendeva debolmente sotto la luce lunare. Wolff strinse le cinghie della sua traversa e guardò gli altri. Chryseis e Kickaha gli fecero un cenno di saluto. Abiru era immobile. Le contorte vestigia della torre di Rhadamanthus divennero più piccole. Non c’erano corvi in vista, per avvertire il Signore. Le aquile che non trasportavano traverse volavano seguendo larghi cerchi, per prevenire questa possibilità. L’aria era percorsa da un’armata; il battito delle grandi ali tambureggiava nel cervello di Wolff, così forte che gli parve che il rumore dovesse essere udito fin nel palazzo del Signore.

Venne il momento in cui la parte devastata di Atlantide poté essere compresa in un solo sguardo. Poi apparvero i bordi, e parte del piano sottostante. Drachelandia divenne visibile, una nera mezzaluna di tenebra. Le ore passavano. Apparve la massa di Amerindia, crebbe e venne bruscamente tagliata ai bordi. Il Giardino di Okeanos, così in basso rispetto ad Amerindia, e così piccolo, non era visibile.

Ora sia il sole che la luna potevano essere visti, per la relativa piccolezza del monolito. Malgrado ciò, le aquile e il loro carico erano ancora immersi nelle tenebre, all’ombra dell’Idaquizzoorhruz. Non sarebbe durata a lungo. Presto anche quel lato sarebbe stato nella vivida luce del giorno. Qualsiasi falco avrebbe potuto vederli, a distanza di molle miglia. Gli attaccanti, comunque, si erano portati vicinissimi alla taccia del monolito, in modo che, per essere visti dall’alto, l’osservatore avrebbe dovuto sporgersi sul bordo.

Finalmente dopo circa quattro ore, quando il sole li ebbe toccati, furono a livello della cima. Accanto a loro c’era il Giardino del Signore, un luogo di fiammeggiante bellezza. Oltre il Giardino si alzavano le torri e i minareti e le strutture incredibili, snelle e raffinate del palazzo del Signore. Era alto venti piani e copriva, secondo Kickaha, un’area di più di un chilometro quadrato.

Non ebbero il tempo di apprezzare queste meraviglie, perché i corvi del giardino cominciarono a strillare. Centinaia di aquile di Podarge erano piombate su di loro, e li stavano uccidendo. Altre aquile stavano dirigendosi verso le numerose finestre, per entrare a snidare il Signore.

Wolff vide che ne entrarono diverse, prima che le trappole del Signore potessero venire attivate. Subito dopo, quelle che tentavano di entrare scomparivano con un lampo e uno scoppio. Completamente bruciato, il loro scheletro ricadeva nel giardino, o sui tetti sottostanti.

Gli esseri umani e le scimmie si attestarono sul terreno, proprio davanti a una porta a forma di losanga, fatta di pietra rosa tempestata di rubini. Le aquile lasciarono le funi e si radunarono intorno a Podarge, in attesa di ordini.

Wolff slegò le corde dagli anelli metallici saldati alla traversa. Poi sollevò le sbarre che componevano la traversa al di sopra del capo.

Raggiunse un punto a pochi metri dalla porta a forma di diamante, e lanciò contro di essa la croce d’acciaio. Una sbarra attraversò l’ingresso; le due ad angolo retto cozzarono contro gli stipiti della porta.

Si susseguirono numerosi lampi di fuoco. Si udì un tuono assordante. Lingue di fiamma azzurrina si allungarono verso di lui. Improvvisamente, del fumo uscì dal palazzo, e i lampi cessarono. L’apparecchio di difesa era saltato, o era temporaneamente scarico.

Wolff si diede un’occhiata intorno. Dagli altri ingressi si levavano lampi di fuoco; quelli che apparivano calmi, erano già stati resi inoffensivi. Le aquile avevano preso molte traverse, e le stavano scagliando dall’alto attraverso le finestre. Lui superò con un balzo il ruscello d’acciaio fuso della traversa che aveva lanciato, e passò oltre la porta. Chryseis e Kickaha lo raggiunsero da un altro ingresso. Dietro Kickaha veniva l’orda delle scimmie giganti. Ciascuna stringeva in mano una spada.

Kickaha domandò:

«Ricordi qualcosa?»

Wolff annuì.

«Non tutto, ma spero che basti. Dov’è Abiru?»

«Podarge e un paio di altre aquile lo tengono d’occhio. Potrebbe tentare qualcosa a suo uso e consumo.»

Wolff li guidò lungo un corridoio le cui pareti erano dipinte con tale gusto che anche il critico più severo della Terra avrebbe esternato la sua ammirazione. In fondo ad esso si trovava un cancelletto armonioso e assai bello, fatto di un metallo bluastro. Avanzarono verso di esso, ma si fermarono quando un corvo, in fuga disperata, passò accanto a loro. Dietro di lui veniva un’aquila.

Il corvo passò sopra il cancello, e così facendo andò a picchiare contro uno schermo invisibile. Improvvisamente, il corvo divenne un mucchietto di cenere. L’aquila inseguitrice strillò nel vedere l’accaduto, e tentò di frenare il suo volo, ma era troppo tardi. Anche lei fu ridotta in cenere.

Wolff tirò verso di sé la sezione sinistra del cancello, invece di spingere, come avrebbe fatto normalmente. Disse:

«Adesso è tutto a posto. Ma sono felice che il corvo ci abbia mostrato la trappola. Io non la ricordavo.»

Malgrado ciò, lanciò la spada per controllare, poi si ricordò del fatto che solo la materia vivente attivava la trappola. Non c’era altro da fare che sperare nella sua buona memoria. Avanzò per primo, incontrando soltanto l’aria, e gli altri lo seguirono.

«Il Signore sarà intrappolato al centro del palazzo, dove si trova la sala di comando delle difese» disse lui. «Alcune difese sono automatiche, ma ce ne sono certe che lui può manovrare personalmente. Certo, se ha scoperto come farle funzionare: e il tempo per imparare non gli e mancato.»

Percorsero un chilometro di corridoio e di stanze, ognuna delle quali avrebbe trattenuto chiunque fosse stato in possesso di senso artistico per giorni e giorni in estatica ammirazione. Di quando in quando, un boato o un grido annunciavano la scoperta di una trappola.

Una dozzina di volte, essi furono fermati da Wolff. Wolff restava per qualche istante con la fronte corrugata, infine sorrideva. Allora muoveva un quadro di qualche centimetro, o toccava una decorazione murale: l’occhio di un uomo dipinto, il corno di un bisonte in una scena delle pianure americane, l’elsa di una spada di un cavaliere in un quadro teutonico. E allora procedevano.

Finalmente, egli chiamò un’aquila:

«Va’ a chiamare Podarge e le altre» disse. «È inutile che si sacrifichino ancora. Mostrerò io la strada.»

Poi disse a Kickaha:

«La sensazione di déjà vu si fa più forte di minuto in minuto. Ma non ricordo tutto. Solo certi dettagli.»

«Finché si tratta dei dettagli importanti, è quello che importa, per il momento» rispose Kickaha. Sorrideva ampiamente, e il suo volto era illuminato dal piacere del conflitto. «Adesso capisci perché non osavo rientrare da solo. Il coraggio l’avevo, ma mi mancava la conoscenza.»