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Sfogliai il libro mentre lei passava al lettore di codice a barre la copia di Sotto la guida del fato.

“Il tuo angelo custode viene con te dappertutto” diceva. “È sempre presente, al tuo fianco, dovunque tu vada.” C’era il disegno di un angelo dalle grandi ali che incombeva su una donna in fila davanti alla cassa del supermercato. “Puoi ignorarlo, puoi perfino fingere che non esista, ma questo non lo farà andare via.”

Finché non passa la moda, commentai tra me.

Presi Sotto la guida del fato e un libro sulla teoria del caos e sui diagrammi di Mandelbrot, un pretesto per scendere a Biologia e vedere che cosa indossava il dottor O’Reilly. Poi feci un salto al Mall di Pearl Street.

Lorraine aveva ragione. La libreria esponeva su uno scaffale L’angelo nel mio condominio e Il ricettario del cherubino e, a metà prezzo, Il calendario degli angeli. In vetrina c’era una grande esposizione di Incontri fatati del quarto tipo.

Salii al piano di sopra, nel reparto libri per bambini, e trovai altre fate: Le fate dei fiori (che era stato di moda già un’altra volta, negli anni Dieci); Fate, fate dappertutto; Ancora fate, fate dappertutto; e Il paese del divertimento fatato. Anche libri di Batman, del Re Leone, dei Power Rangers e di Barbie.

Alla fine riuscii a trovare una copia rilegata di Rospi e diamanti, che mi era piaciuta moltissimo da bambina. Anche lì c’era una fata, ma non come quelle in Fate, fate ecc., con ali color lavanda e campanule per cappellini. Il libro parlava di una bambina che aiuta una brutta vecchia che si rivela una buona fata travestita. Valori interiori contrapposti a frivole apparenze. Il mio tipo di morale.

Comprai il libro e uscii nel centro commerciale. Era una bella giornata — estate di San Martino — con temperatura mite e cielo azzurro. Di sabato il Mall di Pearl Street è un luogo meraviglioso per analizzare le mode, perché, primo, ci sono orde di persone, e, secondo, Boulder è aggiornata quasi all’estremo. Il resto dello stato la chiama Repubblica Popolare di Boulder, perché in città si trova ogni tipo possibile di fanatici della New Age, di banchetti che vendono falafel e di suonatori ambulanti.

Ci sono mode perfino nella musica dei suonatori ambulanti. La chitarra era di nuovo fuori moda e i bongo erano tornati di moda. (La prima volta fu nel 1958, all’apice del movimento Beat. Soglia d’abilità molto bassa.) La rasatura-con-ciuffo di Flip era molto di moda, come anche la rasatura-con-scritta. E il nastro adesivo industriale. Vidi due persone con strisce intorno alle maniche; un tale, con bombetta e capelli infeltriti a riccioli fitti, aveva una larga striscia di nastro adesivo intorno al collo, come i nastri che i francesi sfoggiavano per la moda à la victime, dopo la Rivoluzione.

Periodo che, per inciso, fu l’ultimo in cui le donne portarono i capelli corti, prima che tornassero di moda nel 1920: un buon indizio per ricostruirne l’origine. Gli aristocratici si erano tagliati i capelli per non intralciare la ghigliottina; inoltre, dopo la restaurazione dell’impero, parenti e amici avevano portato i capelli corti in segno di simpatia. Si legavano anche intorno al collo stretti nastri rossi, ma non credevo che fosse questo ciò che aveva in mente il tizio con i riccioli infeltriti. O forse sì.

Gli zainetti erano fuori moda ed erano di moda piccole borse appese a una cordicella. Inoltre, stivaletti imbottiti di lana di pecora e jeans tagliati al ginocchio e camicie scozzesi di flanella. Da nessuna parte si vedeva un solo centimetro di velluto a coste. Il pattinaggio in fila senza alcun riguardo per l’altrui incolumità era molto di moda, al pari del procedere per quattro, fianco a fianco, lentamente, incuranti di tutto. I girasoli erano fuori moda, le violette erano di moda. Idem per il look alla Sinéad O’Connor e per le treccine colorate: lunghi e sottili ciuffi di capelli avvolti in un filo di colori vivaci si vedevano dappertutto.

Cristalli e aromaterapia erano fuori moda, sostituiti dalla etnicità ricreativa. I negozi New Age pubblicizzavano saune irochesi, terapia banya russa e ricerche di visionarie peruviane, 249 dollari per due notti di permanenza, pasti inclusi. C’erano due ristoranti etiopici, una gastronomia filippina e un carretto che vendeva pane fritto navajo.

E almeno sei caffè, evidentemente spuntati come funghi nel giro di una notte: il Jumpstart, l’Espresso Espress, il Caffè Lottie, il Cup o’ Joe e il Caffè Java.

Dopo un poco, stufa di scansare mimi e pattinatori in fila, entrai all’Earth Mother, che ora si chiamava Caffè Krakatoa (a est di Giava). Dentro c’era tanta ressa come fuori nel Mall. Una cameriera con un taglio di capelli alla moda prendeva i nomi. — Vuole sedersi al tavolo comune? — chiese in quel momento al tizio davanti a me, indicando un lungo tavolo con due clienti, uno per estremità.

Il tavolo comune è una moda giunta dall’Inghilterra, dove perfetti estranei devono sedersi allo stesso tavolo per tenersi aggiornati sui pettegolezzi riguardanti il principe Carlo e Camilla. Non ha attecchito particolarmente qui da noi, dove è più facile che gli estranei vogliano parlare di Rush Limbaugh o del proprio trapianto di capelli.

Quando la moda aveva fatto la sua comparsa, mi ero seduta qualche volta al tavolo comune, ritenendolo un buon sistema per scoprire nuove tendenze del linguaggio e del pensiero, ma quegli assaggi erano stati più che sufficienti. Il solo fatto che la gente sperimenti certe cose non significa che abbia perspicacia, come i talk show (moda ormai allo stadio della crescita tumorale incontrollata, che presto dovrebbe esaurire la propria provvista di cibo) avrebbero già dovuto scoprire.

In quel momento il tizio chiese: — Se non mi siedo al tavolo comune, quanto devo aspettare?

La cameriera sospirò. — Non lo so! Quaranta minuti? — Mi augurai di cuore che non diventasse una moda.

La cameriera si rivolse a me. — Quanti?

— Due — dissi, solo per non dover sedere al tavolo comune. — Foster.

— Deve dirmi il nome.

— Perché?

Roteò gli occhi. — Così posso chiamarla!

— Sandra.

— Scritto come?

No, ti prego, pensai, non dirmi che Flip diventa una moda.

Le compitai Sandra, presi i quotidiani alternativi e mi sistemai in un angolo ad aspettare. Era inutile controllare gli annunci personali prima di avere un tavolino, ma gli articoli erano quasi altrettanto buoni. C’era una nuova tecnica laser per eliminare i tatuaggi; Berkeley aveva messo al bando il fumo anche all’aperto; il colore di cui non si poteva fare a meno per la primavera era il rosa postmoderno; il matrimonio tornava di moda. “Convivere è passé” dichiaravano attrici assortite di Hollywood. “Ora le figate sono anelli con brillante, cerimonie nuziali, impegno e tutta la solfa.”

— Susie — chiamò la cameriera.

Nessuno rispose.

— Susie, gruppo di due — ripeté, agitando i capelli a coda di topo. — Susie!

O chiamava me, decisi, o chiamava un’altra che aveva rinunciato e se n’era andata.

— Eccomi — dissi.

Un cameriere con pettinatura alla Three Stooges mi accompagnò a un tavolino schiacciaginocchia accanto alla vetrina. — Ordino subito — dissi, prima che se ne andasse.

— Pensavo che foste in due.

— L’altro arriverà presto. Un doppio caffellatte lungo con latte scremato e spolverata di cioccolato semidolce — dissi vivacemente.

Il cameriere sospirò e sembrò aspettare che proseguissi.