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— E statistica.

— Due specializzazioni — disse Alicia con tono d’approvazione. — Ha fatto in quel campo il lavoro universitario?

Non poteva essere una spia industriale, lavoravamo per la stessa azienda. E poi tutte quelle notizie erano nel mio dossier all’ufficio Personale. — No — risposi. — E lei dove ha fatto il corso di perfezionamento?

Fine della conversazione. — Indiana — rispose secca Alicia, come se le avessi domandato una cosa che non mi riguardava. Fece scivolare giù dal banco le chiappe in rosa, ma non se ne andò. Rimase a guardare i mucchi di fogli sparsi per il laboratorio.

— Ha tanta di quella roba, qui — disse, esaminando una pila piuttosto disordinata.

Forse Grancapo l’aveva mandata a spiare per l’Organizzazione del Posto di Lavoro. — Pensavo di mettere un po’ d’ordine, una volta terminato di compilare il modulo per il finanziamento — dissi.

Alicia si spostò a guardare la pila riguardante il flagpole-sitting. — Il mio l’ho già consegnato.

Naturalmente.

— E il disordine va bene. Anche i laboratori di Susan Holyrood e di Dan Twofeathers erano sempre in disordine. Secondo R.C. Mendez, il disordine è un indicatore di creatività.

Non sapevo chi fossero quelle persone né che cosa ci fosse in ballo. Qualcosa c’era, ovviamente. Forse Grancapo l’aveva mandata a cercare tracce di fumo. Alicia aveva dimenticato del tutto il sorriso amichevole e girava in tondo per il laboratorio, come uno squalo.

— Bennett mi ha detto che lei lavora sull’analisi dell’origine delle mode. Perché ha deciso di occuparsi delle mode?

— Perché se ne occupavano tutti.

— Davvero? Chi sono gli altri scienziati?

— Era una battuta — dissi debolmente e mi preparai al disperato tentativo di spiegarla. — Sa, le mode… cose che la gente fa solo perché tutti le fanno.

— Ah, ho capito. — Il che significava che non aveva capito un bel niente. Ma pareva più perplessa che offesa. — Anche l’arguzia può essere un indicatore di creatività, no? Secondo lei, qual è la qualità più importante per uno scienziato?

— La fortuna.

Ora parve davvero offesa. — La fortuna?

— E buoni assistenti. Prenda Roy Plunkett. Proprio il fatto che il suo assistente usasse una guarnizione di argento nel serbatoio di clorofluorocarbonio ha portato alla scoperta del Teflon. E Becquerel? Ebbe la fortuna di assumere una giovane polacca che lo aiutasse nella terapia con le radiazioni. Si chiamava Marie Curie.

— Molto interessante — disse Alicia. — Dove ha detto d’avere svolto il lavoro universitario?

— Università dell’Oregon.

— A che età ha conseguito il dottorato?

Di nuovo il terzo grado. — Ventisei.

— Quanti anni ha?

— Trentuno. — Pareva la risposta esatta, perché Alicia tornò di buonumore. — È cresciuta nell’Oregon?

— No, nel Nebraska.

Questo, invece, non andava bene. Alicia spense il sorriso, disse: — Ho un mucchio di lavoro da fare — e se ne andò senza guardarsi indietro. Qualsiasi cosa cercasse, evidentemente arguzia e disordine non erano bastati.

Rimasi lì a guardare lo schermo del computer, chiedendomi che storia fosse quella, quando entrò Flip con un assortimento di nastro adesivo e un paio di zoccoletti.

Avrebbe fatto meglio a usare un po’ del nastro adesivo sugli zoccoletti: a ogni passo le scivolavano via. Per venire da me, Flip fu costretta a strisciare i piedi per tutto il corridoio. Zoccoletti e nastro adesivo erano dello stesso bilioso blu elettrico che indossava l’altro giorno.

— Come lo chiami, quel colore? — domandai.

— Blu Cerenkhov.

Naturalmente. Dal nome del fisico che scoprì la radiazione bluastra nei reattori nucleari. Davvero appropriato. Per equità, tuttavia, dovevo riconoscere che non era la prima volta che un colore di moda aveva ricevuto un nome infelice. Al tempo di Luigi XVI, i nomi dei colori erano proprio nauseanti. Fogna, arsenico, vaiolo e “spagnolo” erano tutti nomi alla moda per le tonalità del verde giallastro.

Flip mi porse un foglio. — Deve firmarlo.

Era una petizione per dichiarare il salottino del personale zona vietata ai fumatori. — Dove potranno fumare, se non possono farlo nel salottino? — dissi.

— Non dovrebbero fumare. Fa venire il cancro. — Aveva un tono molto virtuoso. — Penso che i fumatori non dovrebbero avere un lavoro. — Agitò il ciuffo di capelli. — E dovrebbero vivere da qualche parte dove il fumo passivo non può fare male al resto di noi.

— Certo, Frau Goebbels — dissi, dimenticando che l’ignoranza è la più grande di tutte le mode. Le restituii il foglio.

— Il fumo passivo-passivo è pericoloso — disse Flip stizzosamente.

— Anche la piccineria — replicai, girandomi verso il computer.

— Quanto costa una corona? — domandò lei.

Pareva la giornata delle domande uscite dal nulla. — Una corona? — ripetei, stupita. — Intendi dire una cosa come una tiara?

— No-o-o. Una corona.

Provai a immaginare una corona sul ciuffo di capelli di Flip, con le treccine che penzolavano su un lato, ma non ci riuscii. Comunque, mi conveniva stare attenta a qualsiasi cosa di cui Flip parlasse, perché con ogni probabilità sarebbe stata la prossima moda. Forse Flip era incompetente, insubordinata e in genere insopportabile, ma era proprio all’avanguardia della moda.

— Una corona — dissi. — D’oro? — Finsi di mettermela in testa. — Con le punte?

— Punte? — ripeté lei, offesa. — Meglio che non abbia punte. Una corona.

— Mi spiace, Flip. Non so…

— Lei è una scienziata. Dovrebbe conoscere i termini scientifici.

Mi domandai se corona fosse diventato un termine scientifico, come il nastro adesivo era divenuto una commissione personale.

— Una corona! — disse Flip, sospirò forte, e trottò fuori dell’ufficio e giù per il corridoio.

Era la giornata degli incontri di cui non riuscivo a trovare il senso, compresi i dati sul taglio alla maschietta. Mi ero già pentita dell’idea di inserire nel computer le altre mode contemporanee. Ce n’erano troppe e nessuna aveva senso.

Spingere col naso una nocciolina americana dall’Alaska all’Argentina, per esempio, e fare flagpole-sitting e dipingermi le ginocchia di rosso. I ragazzi dei college avevano dipinto su vecchie Ford Modello T slogan brillanti come “Olio di banana” e “Oh, ragazzina!”, casalinghe di mezz’età si erano vestite come fanciulle cinesi e avevano giocato a Mah-jong; e le mode spuntavano dal nulla, l’una soppiantando l’altra nel giro di qualche mese e a volte di qualche settimana. Il ballo del black-bottom aveva rimpiazzato il Mah-jong, che a sua volta aveva rimpiazzato i pantaloni all’egiziana. L’intera faccenda era così caotica da non avere più né capo né coda.

I cruciverba erano l’unica moda in parte ragionevole, ma anche questa moda era un mistero. Era iniziata nell’autunno del 1924, ben dopo il taglio alla maschietta, ma le parole crociate esistevano dal 1800, e fin dal 1913 il “New York World” pubblicava ogni settimana un cruciverba.

E poi, a un attento esame, la parola “ragionevole” non era esatta. Un ministro anglicano aveva distribuito, durante la funzione religiosa, dei cruciverba che, risolti, rivelavano la lezione sulle scritture. Le donne avevano portato abiti decorati con quadratini bianchi e neri, cappellini e calze in stile, e Broadway aveva messo in scena una rivista chiamata “Puzzle del 1925”. C’era chi aveva citato cruciverba in cause di divorzio e segretarie che portavano dizionari tascabili intorno al polso come braccialetti, i medici mettevano in guardia contro l’affaticamento della vista e a Budapest uno scrittore suicida aveva lasciato un biglietto di addio in forma di cruciverba che, per inciso, la polizia non risolse mai, forse perché era già impegnata con la moda seguente: il charleston.