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Nei giorni seguenti fu subito chiaro che in un gregge la diffusione di informazioni era quasi inesistente. E non c’erano neppure mode.

— Voglio osservarle per qualche giorno — disse Ben. — Dobbiamo stabilire quali sono i loro normali schemi di diffusione di informazioni.

Le osservammo. Le pecore brucavano l’erba secca, muovevano un paio di passi, brucavano ancora, si spostavano un poco più in là, riprendevano a brucare. Sarebbero sembrate un quadro pastorale, se non fosse stato per i musi allungati e inespressivi e per il loro vello. Non so chi abbia dato origine al mito che le pecore sono soffici e bianche. Le nostre erano piuttosto del colore di uno straccio vecchio, e altrettanto sporche.

Continuarono a brucare. Di tanto in tanto una pecora smetteva di brucare, percorreva incerta sulle zampe il perimetro del paddock, alla ricerca di un dirupo da cui precipitare, e poi tornava a brucare. Una vomitò. Alcune brucarono lungo lo steccato. Giunte all’angolo, rimasero lì, incapaci di girarsi, e continuarono a brucare, mangiando l’erba fino al terriccio. Poi, in mancanza di idee migliori, mangiarono il terriccio.

— È sicura che le pecore siano mammiferi superiori? — chiese Ben, guardandole appoggiato alla staccionata.

— Mi spiace davvero. Non immaginavo che fossero così stupide.

— Be’, in realtà una struttura comportamentale così semplice potrebbe tornare a nostro vantaggio — disse Ben. — Il problema, con i macachi, è la loro furbizia. Il loro comportamento è complesso, un mucchio di cose accadono contemporaneamente: dominanza, interazione familiare, pulizia del proprio corpo, comunicazione, apprendimento, struttura di cortesia. I fattori operanti nello stesso tempo sono così numerosi che diventa problematico separare la diffusione di informazione dagli altri comportamenti. Con un numero inferiore di comportamenti, sarà più facile capire come si diffondono le informazioni.

Ammesso che ci sia comunicazione, pensai osservando le pecore.

Una pecora mosse un passo, brucò, mosse altri due passi, poi dimenticò evidentemente quel che stava facendo e si guardò intorno con aria vacua.

Arrivò Flip, in uniforme da cameriera, con bordini rossi sul colletto e DON’S DINER ricamato in rosso sul taschino. Aveva con sé un foglio.

— Hai trovato un nuovo lavoro? — chiese Ben, speranzoso.

Roteare d’occhi. Sospiro. Agitare di capelli. — No-o-o-o.

— Allora perché porti l’uniforme? — le domandai.

— Non è una uniforme! È un abito fatto per sembrare una uniforme. A causa di tutto il lavoro che devo fare qui. È una dichiarazione. Deve mettere una firma qui. — Mi diede il foglio e si appoggiò alla staccionata. — Sono quelle, le pecore?

Il foglio era una petizione per vietare il fumo nel parcheggio.

Ben disse: — Una sola persona che fumi una sola sigaretta al giorno in un parcheggio di tre acri non produce fumo passivo sufficiente a destare preoccupazioni.

Flip agitò i capelli, facendo ondeggiare scompostamente le treccine avvolte in filo colorato. — Non fumo passivo! — disse indignata. — Inquinamento atmosferico.

Si allontanò con la solita andatura dinoccolata, e noi tornammo a osservare le pecore. Se non altro, la mancanza di impegno attivo ci lasciava un mucchio di tempo per stabilire i programmi di osservazione e per leggere articoli sull’argomento.

Non c’era molto. Un biologo dell’istituto William and Mary aveva studiato un gregge di cinquecento pecore e aveva concluso che quegli animali hanno “un forte istinto gregario”; un ricercatore dell’Indiana aveva identificato cinque diverse forme di comunicazione ovina (i beee erano elencati in ordine fonetico); ma nessuno aveva fatto esperimenti attivi sull’apprendimento. Tutti avevano fatto solo ciò che facevamo noi in quel momento: osservare le pecore che brucavano, si muovevano a passi incerti, giravano in tondo tutte insieme e vomitavano.

Avevamo un mucchio di tempo per parlare di taglio alla maschietta e di teoria del caos. — La cosa stupefacente è che i sistemi caotici non si mantengono sempre caotici — disse Ben, appoggiato al cancello. — A volte si riorganizzano spontaneamente in una struttura ordinata.

— All’improvviso diventano meno caotici? — dissi, con la speranza che accadesse anche alla HiTek.

— No, ecco il punto. Diventano sempre più caotici, fino a raggiungere una sorta di massa critica caotica. Quando avviene, si riorganizzano spontaneamente in un livello d’equilibrio più alto. Si chiama criticità auto-organizzata.

Anche noi eravamo sulla buona strada, pareva. Grancapo sfornava memo, le pecore incastravano la testa nella staccionata, nel cancello e sotto il distributore di cibo, Flip veniva periodicamente ad appollaiarsi sul cancello fra il paddock e il laboratorio, muovendo su e giù il saliscendi con l’espressione di chi soffre di mal d’amore.

Dopo tre giorni fu chiaro che le pecore non avrebbero dato origine a nessun comportamento ripetitivo. E che non avrebbero mai imparato a premere un pulsante per ottenere il cibo. La mattina dopo l’arrivo delle pecore, Ben aveva montato un distributore di cibo e aveva fatto varie dimostrazioni, mettendosi a quattro zampe e premendo col naso il pulsante largo e piatto. A ogni pressione uscivano tavolette di cibo, e Ben infilava la testa nella mangiatoia e fingeva rumorosamente di masticare. Le pecore guardavano, impassibili.

— Dovremo costringerne una a farlo — dissi. Avevamo guardato la registrazione su nastro del giorno del loro arrivo e avevamo visto come erano scese dal camion. A furia di urtarsi e di indietreggiare, una pecora era finita sulla rampa. Le altre si erano subito precipitate dietro di lei. — Se riusciamo a insegnarlo a una, sappiamo che le altre la imiteranno.

Ben, rassegnato, andò a prendere la cavezza.

— Quale?

— Non quella. — Indicai la pecora che aveva vomitato. Guardai le altre e ne soppesai prontezza e intelligenza. Non c’era poi molta scelta. — Quella là, direi.

Ben annuì e ci muovemmo verso la prescelta portando la cavezza. La pecora ruminò pensierosamente per qualche istante e poi corse nell’angolo più lontano. Tutte le pecore la seguirono, saltando l’una sull’altra nell’ansia di arrivare al muro.

— “E fuor delle case irruppero i topi” — mormorai.

— Be’, almeno sono tutte in un angolo — disse Ben. — Dovrei riuscire a mettere la cavezza a una.

Niente da fare… anche se Ben riuscì ad afferrare un pugno di vello e a tenere duro fino al centro del paddock.

— Penso che le spaventa — disse Flip dal cancello. Vi era rimasta appollaiata per mezza mattina, immusonita, muovendo su e giù il paletto e parlandoci di Darrell il dentista.

— Loro spaventano me — disse Ben, ripulendosi i calzoni di velluto a coste — perciò siamo pari.

— Forse dovremmo provare a blandirle — suggerii. Mi chinai sulle ginocchia. — Vieni qui — cinguettai con la vocina da bambino che la gente usa con i cani. — Su, vieni. Non ti faccio niente.

Le pecore mi fissarono dall’angolo e continuarono a ruminare, impassibili.

— Cosa fanno i pastori, quando guidano il gregge? — domandò Ben.

Cercai di ricordarlo da qualche film. — Non so. Camminano davanti al gregge e le pecore li seguono.

Provammo anche noi. Provammo anche ad avvicinarci di soppiatto dai due lati e ad arrivare da dietro, nell’improbabile caso che corressero nell’altra direzione e che una di esse finisse per urtare il pulsante senza volerlo.