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Henry Kuttner e C.L. Moore

Il figlio del pifferaio

Al Burkhalter, avendo di recente raggiunto la maturità dei suoi otto anni di età, se ne stava stravaccato sotto un albero e masticava un filo d’erba. Era immerso così profondamente nelle sue fantasticherie che suo padre dovette dargli una cortese gomitata per riportare un barlume di comprensione nei suoi occhi socchiusi.

Era una buona giornata per sognare, in verità: il sole era rovente, appena mitigato dalle fresche folate del vento che soffiava giù dalle bianche cime della sierra a oriente. L’erba timothy esalò la sua sottile fragranza muschiosa tra un refolo e l’altro, e Ed Burkhalter si sentì contento all’idea che suo figlio appartenesse alla seconda generazione dallo Scoppio. Lui stesso era nato dieci anni dopo da quando era stata sganciata l’ultima bomba, ma anche le rievocazioni di seconda mano possono essere alquanto spiacevoli.

«Salve, Al», disse, e il ragazzo gli lanciò un’occhiata di tollerante accettazione da dietro le palpebre.

«Ciao, papà».

«Vuoi venire in città con me?»

«Niente da fare», rispose Al, tornando a sprofondare subito dopo nel suo torpore.

Burkhalter sollevò un sopracciglio e accennò a voltarsi. Poi, d’impulso, fece qualcosa che di rado osava senza il tacito permesso della controparte: usò il suo potere telepatico per penetrare nella mente di Al. Ammise, come sempre, che c’era da parte sua una certa esitazione, un’inconscia maldisposizione a farlo, anche se Al aveva superato il repulsivo e inumano stadio dell’infanzia mentale. Ricordò il tempo in cui la mente di Al aveva il potere di sconvolgerlo nella sua assoluta estraneità. Burkhalter ricordò qualche esperimento abortito che aveva fatto prima della nascita di Al; pochi erano i padri capaci di resistere alla tentazione di compiere esperimenti coi cervelli in embrione, e ciò aveva fatto rinascere incubi che Burkhalter non aveva più vissuto dalla sua giovinezza. C’erano state immani masse rotolanti, una vastità che faceva sgomento, e altre cose ancora. I ricordi prenatali erano cupi e angosciosi e avrebbero dovuto esser lasciati agli psicologi mnemonici, gli unici qualificati.

Ma adesso Al stava maturando e fantasticava, come al solito, a vividi colori. Burkhalter, rassicurato, sentì di aver assolto il proprio dovere con quel suo invito che era un larvato controllo, e lasciò suo figlio a masticare il filo d’erba e a ruminare dentro di sé.

Malgrado ciò, provò un’improvvisa, intima tenerezza, e la dolorosa, futile pietà che era incline a provare nei confronti delle creature impotenti che non avevano ancora qualità ed esperienza bastevoli ad affrontare quella faccenda del sopravvivere che presentava tante, ed eccezionali complicazioni. La lotta, la competizione, non si erano estinte quando la guerra si era autoabolita; quei fatto di doversi adattare, di trovare un modus vivendi perfino li, nei propri ristretti dintorni, era un perenne conflitto, un duro confronto, una schermaglia. Anche con Al il problema era duplice. Sì, il linguaggio era una sorta di barriera daziaria, e un calvo poteva valutare in pieno ciò che questo significava, poiché una simile barriera non esisteva tra i calvi.

Camminando lungo il cedevole sentiero che conduceva verso il centro cittadino, Burkhalter diede in un sogghigno forzato e si passò le dita magre attraverso la parrucca ben tenuta. Spesso gli estranei rimanevano sorpresi nell’apprendere che lui era un calvo, un telepate. Lo fissavano con occhi pieni di meraviglia, troppo cortesi per chiedere cosa si provasse ad essere un anormale, ma allo stesso tempo era fin troppo chiara la loro bramosia di saperlo. Burkhalter, tutt’altro che digiuno di diplomazia, era ben disposto a guidare la conversazione.

«I miei vivevano vicino a Chicago dopo lo Scoppio. È stato per questo». «Oh». Fissità dello sguardo. «Ho sentito dire che è stato per questo che tanti…» Pausa sbigottita.

«Anormali o mutanti. Ce ne sono stati di ambedue le specie. Io non so ancora a quale classe appartengo», finiva per aggiungere in tono disarmante.

«Lei non è un anormale!» Ma non protestavano troppo.

«Be’, qualche esemplare davvero bizzarro è venuto fuori dalle aree investite dalle radiazioni, tutt’intorno ai bersagli delle bombe. Strane cose capitarono al plasma germinale. Quasi tutti però sono morti, o estinti: non erano in grado di riprodursi. Ma se ne trova ancora qualcuno in certe cliniche: tipi con due teste, e così via».

Nondimeno, erano sempre a disagio davanti a lui. «Intende dire che sa leggere il pensiero… anche in questo momento?»

«Potrei, ma non lo faccio. È difficile, salvo con un altro telepate. E noi calvi… be’, non lo facciamo. Questo è tutto». Un uomo con un anormale sviluppo muscolare non andrebbe certo in giro a sbatter la gente per terra. A meno che non voglia esser linciato dalla folla. I calvi erano sempre consci d’un pericolo serpeggiante: la legge di Linch. E i calvi più accorti neppure sottintendevano d’essere in possesso d’un senso in più. Si limitavano a dire d’esser diversi, e si fermavano lì.

Ma una domanda era sempre implicita, anche se non sempre espressa: «Se fossi un telepate, io… Quanto guadagna lei in un anno?»

Rimanevano sorpresi della risposta. Certo, un lettore del pensiero avrebbe potuto realizzare una fortuna, se avesse voluto. Allora, perché mai Ed Burkhalter continuava a fare l’esperto di semantica alla Città Editoriale Modoc, quando un solo viaggio in una delle città delle scienze gli avrebbe consentito d’impadronirsi di segreti che gli avrebbero procurato una fortuna?

C’era una buona ragione. L’istinto di conservazione ne costituiva una parte. Era per questo motivo che Burkhalter, e molti come lui, portavano capelli posticci. Anche se c’erano molti calvi che non lo facevano.

Modoc e Pueblo, sull’altro lato della barriera montagnosa a sud della distesa che un tempo aveva ospitato Denver, erano due città gemelle. A Pueblo c’erano le stamperie, le fotocompositrici, tutte le macchine che trasformavano i manoscritti originali in libri, dopo che erano stati prodotti e revisionati a Modoc. A Pueblo c’era anche una flotta di elicotteri per la distribuzione, e durante l’ultima settimana Oldfield, il direttore, gli aveva chiesto di revisionare il manoscritto di «Psicostoria», opera d’un tizio di New Yale che si era lasciato coinvolgere in maniera eccessiva da vecchi problemi emotivi, a tutto detrimento della chiarezza letteraria. E questo tizio non si fidava di Burkhalter il quale, pur non essendo né prete né psicologo, era stato costretto a diventare entrambe le cose senza che il confuso autore di «Psicostoria» se ne accorgesse.

Gli edifici della casa editrice formavano una complicata struttura a più livelli, più simile a un luogo di villeggiatura che a qualcosa di strettamente utilitaristico. Ma era stata una concreta necessità a farla progettare in tal modo. Gli autori erano gente quasi sempre strana e originale, e spesso era necessario indurli a fare cure idroterapiche prima che fossero nella giusta forma per lavorare sui loro libri insieme agli esperti di semantica. Nessuno, ovviamente, aveva intenzione di morderli, ma loro non se ne rendevano conto e finivano per rannicchiarsi negli angoli tutti impauriti, oppure se ne andavano in giro dando in escandescenze, facendo uso d’un linguaggio che pochi riuscivano a capire. Jem Quayle, l’autore di «Psicostoria», non rientrava in nessuno di questi due gruppi; era semplicemente sconcertato dall’intensità della propria ricerca. La sua storia personale in verità rendeva inevitabile in lui questo profondo, emotivo coinvolgimento col passato — e questo era particolarmente grave quand’era in ballo un lavoro del tipo che Quayle stava svolgendo.

Il dottor Moon era un membro del consiglio: sedeva accanto all’ingresso meridionale, intento a mangiare una mela che sbucciava con cauti movimenti servendosi del suo pugnale dall’elsa d’argento. Moon era basso e grasso, quasi informe. Non aveva molti capelli, ma non era un telepate; i telepati erano completamente glabri dalla testa ai piedi. Moon mandò giù un boccone e salutò Burkhalter con un cenno della mano.