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«Ed…urp… volevo parlarti».

«Ma certo», rispose Burkhalter con bonomia. Si fermò davanti a lui, dondolandosi sui tacchi. Ma quasi subito un’abitudine innata lo spinse a sedersi accanto al rappresentante del consiglio. I calvi, per ovvie ragioni, non rimanevano mai in piedi quando i non telepatici stavano seduti. Ora, i loro occhi s’incontrarono allo stesso livello. Burkhalter chiese: «Che cosa succede?»

«Ieri il supermercato ha ricevuto per via aerea un po’ di mele Shasta. Meglio dire a Ethel che vada a comperarne qualcuna prima che le finiscano… Ecco».

Burkhalter guardò il suo compagno che ne mangiava un pezzo, e annui.

«Sono ottime. Glielo dirò. Tuttavia oggi l’elicottero è fuori uso; Ethel ha tirato la leva sbagliata».

«A prova di errore», commentò Moon in tono amaro. «Huron sta proprio sfornando dei bei modelli, oggigiorno. Quello nuovo io me lo sto facendo mandare da Michigan. Senti… stamattina Pueblo mi ha chiamato per quel libro di Quayle».

«Oldfieid?»

«Proprio lui», annuì Moon. «Dice se non potresti mandargli almeno qualche capitolo».

Burkhalter scosse il capo. «Non credo proprio. Ci sono alcune interpretazioni proprio all’inizio che devono esser chiarite, e Quayle è così…» Esitò.

«Cosa?»

Burkhalter pensò al complesso d’Edipo che aveva scoperto nella mente di Quayle, ma si trattava pur sempre di qualcosa d’intimo e inviolabile, anche se impediva a Quayle d’interpretare la figura di Dario con fredda logica. «In quelle pagine il suo modo di pensare è assai confuso. Non posso lasciar correre; ho provato ieri con tre lettori, e ho ottenuto un diverso risultato con ognuno dei tre. Così com’è, attualmente, «Psicostoria» può esser letto e interpretato da chiunque come gli pare… I critici ci strapazzerebbero se pubblicassimo il libro così com’è. Non puoi menar per il naso Oldfield ancora per un po’?»

«Forse», replicò Moon in tono dubbioso. «Ho un romanzo intimista che potrei far passare avanti. Un pizzico d’erotismo sostitutivo… ed è innocuo; inoltre, dal punto di vista semantico è a posto. L’avevamo bloccato per cercare un illustratore adatto, ma posso metterci sopra Duman. Sì, farò così. Manderò subito il manoscritto a Pueblo per posta pneumatica e Duman potrà preparare le lastre più tardi. Conduciamo proprio una vita allegra, Ed».

«A volte un po’ troppo allegra», commentò Burkhalter. Si alzò in piedi, annui, e andò a cercare Quayle che si stava rilassando in uno dei solarium.

Quayle era un uomo magro, alto, il volto preoccupato e astratto insieme, quasi una tartaruga senza guscio. Era disteso sul suo lettino di flessovetro con la luce del sole che pioveva dritta dall’alto tostandolo, mentre i raggi riflessi gli arrivavano furtivi da sotto, attraverso il vetro trasparente. Burkhalter si sfilò la camicia e si lasciò cadere su una sedia a sdraio accanto a Quayle. Lo scrittore fissò il petto glabro di Burkhalter e un’istintiva ripugnanza accennò a prender forma in lui: Un calvo… niente intimità… Non sono cose sue… ciglia e sopracciglia false, è sempre un…

E qui si concretizzò qualcosa di molto sgradevole.

Con mossa diplomatica, Burkhalter schiacciò un pulsante e su uno schermo sopra di loro comparve una pagina di «Psicostoria», ingrandita e perciò facile a leggersi. Quayle scrutò il foglio. Su di esso c’erano annotazioni in codice fatte dai lettori, che Burkhalter riconobbe come reazioni contorte ed emotive, ben diverse dalle valutazioni limpide e lineari che avrebbero dovuto esserci. Se tre lettori avevano tratto da quei pochi paragrafi tre significati del tutto diversi… be’, allora che cosa intendeva dire Quayle? S’insinuò con delicatezza nella sua mente, conscio degli inutili ostacoli innalzati contro le intrusioni, barricate di fango sopra le quali l’occhio della mente si muoveva furtivo come una tranquilla brezza inquisitrice. Nessun uomo normale poteva proteggere la propria mente da un calvo. Ma i calvi potevano proteggere la propria intimità contro l’intrusione di altri telepati… adulti, naturalmente. C’era un selettore di banda psichico, ma…

Eccolo. Ma un po’ confuso. Dario: non era soltanto una parola, e neppure un’immagine; era in effetti una seconda vita. Ma sparpagliata, frammentaria. Frammenti d’odori, di suoni, ricordi, reazioni emotive. Ammirazione e odio. Una bruciante impotenza. Un tornado nero che odorava di pino, che attraversava ruggendo una carta geografica dell’Europa e dell’Asia. Ora l’odore di pino si era fatto più intenso, e un’orribile umiliazione, il ricordo d’una sofferenza… occhi… Esci fuori… Vattene!

Burkhalter mise giù il microfono del dittografo e giacque immobile, guardando verso l’alto attraverso gli occhiali-parasole che aveva infilato. «Sono uscito non appena mi ha chiesto di farlo», disse. «E sono ancora fuori».

Quayle respirava affannosamente, disteso accanto a lui. «Grazie», rispose. «Le mie scuse. Perché non chiede un duello…»

«Non voglio duellare con lei», replicò secco Burkhalter. «In tutta la mia vita non ho mai insanguinato il mio pugnale. Inoltre, capisco il suo punto di vista. Si ricordi che questo è il mio lavoro, signor Quayle, e ho appreso un bel po’ di cose… che subito ho dimenticato».

«Suppongo che si tratti di un’intrusione…» fece Quayle. «Continuo a dirmi che non ha importanza, ma la mia intimità è importante».

Burkhalter riprese, paziente: «Possiamo continuare, tentando da diverse angolazioni, fino a quando non ne troveremo una che non sia troppo intima. Supponiamo ad esempio che io le chieda se lei ammira Dario».

Ammirazione… e odore di pino… Burkhalter aggiunse in fretta: «Sono fuori, va bene?»

«Grazie», borbottò Quayle. Si girò di lato, voltando la schiena a Burkhalter. Un attimo dopo disse ancora: «È una sciocchezza… voglio dire, questa di girarmi mostrandole la schiena. Lei non ha affatto bisogno di vedere il mio viso per sapere quello che penso».

«Dovrà stendere il tappeto rosso del benvenuto prima che io entri», ribadi Burkhalter.

«Immagino di doverle credere. Tuttavia ho incontrato certi calvi che erano… Che non mi piacevano».

«Ce ne sono molti di quel tipo, certo. Li conosco. Quelli che non portano la parrucca».

Quayle annui: «Ti leggono la mente e ti mettono in imbarazzo soltanto per divertirsi. Bisognerebbe… dargli una lezione».

Burkhalter ammiccò alla luce del sole. «Be’, signor Quayle, le cose stanno così. Anche un calvo ha i suoi problemi. Deve orientarsi in un mondo che non è telepatico; e suppongo che molti calvi abbiano l’impressione di esser costretti a gettare alle ortiche la loro miglior dote. Ma ci sono lavori adatti a un uomo come me…»

«Uomo!» Intercettò lo scampolo di pensiero uscito da Quayle. Lo ignorò, il volto privo d’espressione, e proseguì:

«La semantica ha sempre costituito un problema, perfino in paesi dove si parla una sola lingua. Un calvo, con la sua dote, è un magnifico interprete. E malgrado non vi siano calvi che fanno ufficialmente parte delle forze investigative, capita spesso che lavorino con la polizia. È un po’ come essere una macchina che può far soltanto alcune cose».

«Alcune cose in più di quanto possano fare gli umani», commentò Quayle.

Certo, rifletté Burkhalter, se soltanto potessimo competere alla pari con l’umanità non telepatica… Ma si fiderebbe un cieco di uno che può vedere? Giocherebbe a poker con lui? Un’improvvisa, profonda amarezza riempi di uno sgradevole sapore amaro la bocca di Burkhalter. Qual era la risposta? Delle riserve in cui costringere i calvi a vivere? L’isolamento? E una intera nazione di ciechi, anche così, si sarebbe fidata dei calvi? Oppure li avrebbe spazzati via, applicando la cura più drastica ed efficace prevista dall’attuale sistema di controllo ed equilibrio che faceva della guerra un’eventualità impossibile?