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Ricordava quando Red Bank era stata spazzata via, e, forse, con piena giustificazione. Red Bank era cresciuta troppo ed era diventata troppo tracotante per un’epoca in cui la dignità personale era un fattore di sopravvivenza, e gli altri non erano certo disposti a perdere la faccia fintanto che un pugnale pendeva alla loro cintura. Erano migliaia e migliaia le piccole città che oggi coprivano l’America, ognuna con la sua particolare specializzazione (fabbricazione di elicotteri per Huron e Michigan, coltivazione di ortaggi per Conoy e Diego, tessili, insegnamento, arte, macchine utensili per altre ancora, e così via), e ogni singola città teneva d’occhio tutte le altre con molta attenzione. I centri scientifici e di ricerca erano un po’ più grandi, nessuno trovava da obbiettare a questo, poiché scienziati e tecnici non facevano mai la guerra se non costretti da politici e tiranni; ma ben poche fra tutte queste piccole città ospitavano più di qualche centinaio di famiglie. Era un sistema di controllo ed equilibrio spinto alla massima efficienza; tutte le volte che una cittadina mostrava i segni di voler diventare una città — e poi una metropoli, capitale d’un impero — veniva spazzata via. Ma questo non accadeva più da molto tempo. E anche la distruzione di Red Bank, in fin dei conti, poteva essere stato un errore.

Comunque, da un punto di vista geopolitico era un’ottima impostazione; sociologicamente era accettabile, ma aveva imposto dei cambiamenti. Boria e smania di potere erano state ricacciate nel subconscio. Era intervenuto un maggior rispetto per i diritti dei singoli, man mano la decentralizzazione procedeva. E gli uomini avevano imparato.

Avevano imparato ad usare un sistema monetario basato soprattutto sul baratto. Avevano imparato a volare: nessuno usava più macchine di superficie. Avevano imparato molte cose nuove, ma non avevano mai dimenticato lo Scoppio, e in luoghi segreti, vicino ad ogni abitato, erano nascoste le bombe che potevano, in modo incredibilmente completo, polverizzare una cittadina, allo stesso modo in cui bombe analoghe avevano sterminato le grandi città durante lo Scoppio.

E tutti sapevano come fabbricarsi quelle bombe. Erano d’una bella e terribile semplicità. Gli ingredienti si trovavano dovunque e metterli insieme non era per niente difficile. Poi, si poteva guidare il proprio elicottero fin sopra una cittadina, sganciarci sopra un uovo… e la cittadina era cancellata.

Fatta eccezione per i malcontenti delle terre incolte, i disadattati presenti in ogni razza, nessuno aveva da ridire. E le tribù dei nomadi non facevano mai scorrerie, né si riunivano mai in grandi gruppi, per timore di venire cancellate. Entro certi limiti anche gli artisti erano dei disadattati, ma non antisociali, e potevano perciò vivere dove volevano e dipingere, scrivere, comporre musica o ritirarsi nei loro mondi privati. Gli scienziati, anch’essi disadattati ma per altro verso, si erano ritirati nelle loro cittadine un po’ più grandi, riunendosi a formare, così, dei piccoli universi tutti loro, sfornando uno dopo l’altro straordinari successi tecnologici.

E i calvi trovavano lavoro dove potevano.

Nessun non-telepate avrebbe mai visto il mondo circostante come Burkhalter. Egli era conscio con intensità anormale dell’elemento umano e attribuiva un significato assai più profondo ai valori umani, senza dubbio perché valutava gli uomini secondo una diversa dimensione, anzi, più di una. E inoltre, in un certo qual senso, guardava l’umanità come l’avrebbe fatto un osservatore esterno.

Eppure era umano. La barriera che la telepatia aveva innalzato induceva gli uomini a sospettare di lui, più ancora che se avesse avuto due teste, poiché in tal caso avrebbe potuto contare sulla loro pietà. Ma, visto come stavano le cose…

Già, visto come stavano, regolò lo schermo finché non comparvero in uno sfarfallio sopra di loro altre pagine del dattiloscritto. «Dica quando», disse rivolto a Quayle. Questi scostò all’indietro i capelli grigi. «Ho i nervi a fior di pelle», obbiettò. «Tutto il lavoro di stesura del mio libro e la revisione mi hanno sottoposto a una tensione quasi insopportabile».

«Be’, possiamo sempre rimandare la pubblicazione», suggerì Burkhalter, in tono casuale, e si compiacque quando constatò la viva repulsione che Quayle provava a quell’idea. Neppure a lui piaceva fallire.

«No, no. Voglio concludere adesso».

«La catarsi mentale…»

Be’, si, forse, con l’aiuto di uno psicologo? Ma non un…»

«… un calvo. Lo sa che parecchi psicologi hanno dei calvi per assistenti? E ottengono anche degli ottimi risultati».

Quayle cominciò a fumare, inspirando con lentezza. «Suppongo… Non ho avuto molti contatti con i calvi. O forse troppi… e d’ogni tipo e qualità. Un giorno ne ho visto alcuni in un manicomio. Ma non la sto offendendo?»

«No», disse Burkhalter. «È il rischio d’ogni mutazione, passar troppo vicina alla linea di demarcazione. Ci sono stati molti insuccessi. Quella dei telepati glabri, creati dalle radiazioni dure, può dirsi una mutazione riuscita. Ma non tutti sono riusciti a mantenersi in carreggiata. La mente è uno strano congegno… lei lo sa. È un colloide in equilibrio, in senso figurato, sulla punta di uno spillo. Se c’è qualche difetto, la telepatia è quel che ci vuole per farlo saltar fuori. E così si è scoperto che tra gli effetti dello Scoppio c’è l’aver scatenato un mucchio di pazzia. Non soltanto fra i calvi: anche fra molti altri tipi di mutanti che si svilupparono allora. Solo che i calvi… sono quasi tutti paranoici».

«Ma c’è anche la demenza precoce», aggiunse Quayle, provando sollie vo nell’uscire dal suo imbarazzo, sviando l’attenzione su Burkhalter.

«E la demenza precoce, già. Quando una mente confusa acquisisce la facoltà telepatica… una mente ereditariamente caotica… non riesce a controllarla del tutto. Il suo disorientamento cresce. I paranoici riempiono il mondo che li circonda di persecuzioni e altre manie, mentre chi è affetto da demenza precoce non sa nemmeno che questo mondo esiste. Ci sono differenze tra i singoli individui, è ovvio, ma sostanzialmente le cose stanno così».

«In un certo senso», commentò Quayle, «la cosa fa paura. Non mi viene in mente nessun parallelo storico».

«No, infatti».

«Come andrà a finire?»

«Non lo so», rispose Burkhalter, pensieroso. «Credo che verremo assimilati, alla fine. Non c’è stato ancora abbastanza tempo… In fin dei conti siamo specializzati, e per certi lavori siamo utili, no?»

«Contenti voi. Ma quei calvi che non portano parrucca…»

«Sono talmente collerici che mi aspetto, col passar del tempo, di vederli tutti uccisi nei duelli». Burkhalter sorrise. «Non sarà una gran perdita. Il resto di noi sta ottenendo ciò che vuole: essere accettati. Non abbiamo né corna, né aureola».

Quayle scosse la testa. «Credo d’essere contento di non possedere facoltà telepatiche. Comunque, la mente è già abbastanza misteriosa senza che si debbano aprire nuove porte. Grazie per avermi fatto parlare… È servito a farmi sfogare, almeno in parte. Possiamo andare avanti, adesso, col manoscritto?»

«Certo», annui Burkhalter, e ancora una volta le pagine comparvero una dopo l’altra sullo schermo sopra le loro teste. Quayle pareva meno sulla difensiva; i suoi pensieri erano più lucidi e Burkhalter riuscì a penetrare il vero significato di molte affermazioni che fino a quel momento erano rimaste confuse. Lavorarono con facilità, col telepate che rimodellava le frasi al dittafono, e due volte soltanto dovettero affrontare l’ostacolo di grovigli emotivi. Staccarono a mezzogiorno e Burkhalter, salutando l’autore con un amichevole cenno del capo, s’infilò nello scivolo che portava al suo ufficio, dove trovò alcune chiamate registrate sul visore. Attaccò il riascolto e un’espressione preoccupata s’insinuò nei suoi occhi azzurri.