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Il giorno seguente si lascia dietro la savana. Il territorio diventa ancora più apocalittico. Questa è una zona di disturbi termici: alcuni geyser spruzzano impetuose fontane di acqua ribollente, e la maggior parte del terreno è surriscaldato e inaridito. Esamina terrazze gessose, simili a tubature incrostate, che sostengono vasche d’acqua incrostate d’alghe, rosse, verdi, blu e una mistura di questi colori. Si ferma per osservare spruzzi di vapore nero alti centinaia di metri che fuoriescono da un’alta fumarola. Attraversa una pianura morta di sedimenti vetrosi, zigzagando per evitare le fessure che esalano spaventosi gas di putrefazione. Qui, ancora una volta, ritrova le piccole guide: — È questo il sentiero per il Pozzo delle Prime Cose? — chiede a una cosa strampalata aggrappata a un ramo contorto di albero, e questa gli risponde di andare avanti. Una bestiola rosea dalle molte gambe lo conduce graziosamente attraverso un intricato intreccio di laghetti termali che gorgogliano e ribollono e si lamentano e sembrano sempre sul punto di inondarlo di fluidi bollenti. Il cielo qui è grigio-blu per il fumo anche a mezzogiorno. L’aria ha un odore di prodotti chimici. La sua pelle si ricopre rapidamente delle esalazioni scure; quando fa correre i polpastrelli sul petto, lascia solchi nello sporco che lo ricopre. — Posso fare il bagno qui? — chiede a un’amichevole cosa saltellante, indicando con un piede un laghetto da cui non si innalzano vapori. — Non è saggio — risponde il saltatore. — Non è saggio, non è saggio, non è saggio! — e dal laghetto si riversa subito una schiuma scarlatta come se dall’interno fosse scaturito un acido corrosivo. Decide che è meglio rimanere sporchi.

Una parete di roccia scabra chiude la vallata dei geyser all’estremità opposta estendendosi a nord e a sud. Per scalarla ci vuole una certa abilità, perché sale quasi verticalmente e ci sono molti falsi appigli, ma Clay riesce a salire, preferendo questi rìschi alla pianura dall’aspetto infinito che si stende dalle altre parti. Rimane sollevato nel notare che il pendio è molto più delicato dall’altra parte. Mentre ridiscende, lancia un’occhiata alla zona che lo aspetta, e coglie una visione così straordinaria che si rende conto di aver raggiunto la sua destinazione. Per mezzo di una luce intensa, come se provenisse da un sole filtrato, vede una pianura completamente nuda: non un cespuglio, non un albero, non una roccia, solo una zona livellata di terra che si stende dall’estrema sinistra all’estrema destra, e si allontana curvandosi da lui verso il centro del mondo. Il suolo, arido come su Marte, è rosso mattone. Dritto davanti a luì, di sicuro a parecchi giorni di marcia nella pianura, c’è una colonna di luce che si innalza luminosa dal terreno e sale con regolarità perfetta, come una grande colonna di marmo, perdendosi per l’estremità superiore nell’atmosfera limpida. La colonna deve avere un diametro di mezzo chilometro, secondo i calcoli di Clay. Ha la lucidità della pietra levigata, eppure è certo che non è composta di sostanze materiali, ma piuttosto di un accumulo di energia pura. Nel suo interno è evidente il movimento: ampi settori roteano turbinosamente, si scontrano, si fondono, si mescolano. I colori mutano casualmente, adesso predomina il rosso e ora il blu, ora il verde, poi il marrone. Alcune zone della colonna sembrano più dense delle altre. Spesso si distaccano alcune scintille che si allontanano fluttuando per poi dissolversi. In alto, la sommità incerta della colonna si fonde con le nuvole, oscurandole e incupendole. Clay sente nettamente un suono sibilante, crepitante, come di una scarica elettrica. Questa singola asta possente di luminosità nel mezzo della pianura abbandonata lo schiaccia, sovrastandolo. È un vero e proprio scettro di potenza: è un fulcro di creazione e cambiamento; è un asse di forza su cui può ben girare l’intero pianeta. Clay stringe gli occhi per cogliere parte del suo splendore. — Il Pozzo delle Prime Cose? — chiede. Ma non ha più guida, e deve rispondersi da solo, con un: — Sì! Sì e sì — ancora. Questo è il posto. Si precipita in avanti. Si offre. Accetta qualsiasi cosa. Si offrirà al Pozzo.

34

Si ferma sul bordo del Pozzo. Un ampio bordo calcificato, bianco come ossa, levigato come la porcellana; alcuni metri davanti a lui la colonna di luce sorge verso l’alto da un abisso incommensurabile. Così vicino, è sorpreso di non sentire alcun effetto particolare. C’è un certo calore, e una certa secchezza elettrica nell’aria, e forse odore di ozono; ma con tutta quell’energia che esce impetuosa dal terreno si aspetterebbe sensazioni prodigiose, e invece non sente nulla. La colonna sembra intangibile, come il raggio di un faro colossale. Fa un altro passo per avvicinarsi. Si muove lentamente, ma non per paura o esitazione, in quanto ormai il suo sentiero è deciso; prima di entrare, vuole capirne il più possibile. Il bordo scende davanti a lui, porta verso il basso. Clay si trova ancora sulla parte piatta, ma al passo successivo i suoi piedi toccano l’inizio della curva discendente. Ormai è sufficiente un minimo spostamento in avanti del suo peso, e cadrà dentro. Ha deciso. Io sono il sacrificio. Io sono il capro espiatorio. Sono lo strumento di redenzione. Clay andrà. Comincia a chinarsi in avanti. Allarga le braccia, apre le mani, con i palmi rivolti verso la luce; la superficie della colonna sembra argentea, e ha la lucentezza di uno specchio: vi vede riflesso il suo volto che si avvicina, occhi scuri e cerchiati di scuro, labbra leggermente strette. La punta del naso tocca la colonna. Ci affonda dentro, cade; è privo di peso; è in estasi. La sua discesa termina dopo qualche momento. Come un mucchietto di cenere trascinato da una corrente ascendente, viene trasportato vorticosamente verso la cima della colonna, come una piuma, sbatacchiato da tutte le parti, spostato senza alcuna possibilità di controllare la situazione. Il suo corpo fisico si sta dissolvendo. Quello che rimane non è altro che un nucleo di impulsi elettrici. Non sa più se sta salendo o cadendo. È all’interno della colonna, e passa da zone di grande densità a zone di leggerezza, cambiando livello al volere della forza che lo tiene, e sa solo che sta girando e vorticando ed è in balia dell’effluvio luminoso nel Pozzo delle Prime Cose.

Ci sono delle forme, all’interno della colonna.

Alcune sono strane. Molte sono familiari. Ci sono gli archetipi della creazione. Scorge i profili di gatti, cani, cervi, pecore, orsi, bisonti, leoni, cammelli, zebre e altre creature del passato remoto. Hanno avuto la loro possibilità, poi sono scomparsi; rimangono qui solo in essenza, in reliquia. Poi vede le figure delle bestie di questa epoca, tutte quelle che ha incontrato nella savana, e molte altre che ha incontrato nei suoi viaggi. Frammiste a queste ultime sono le riproduzioni nebbiose di altre creature bizzarre. Fluttuano accanto a lui, follemente, e quindi svaniscono, lasciandolo con la bocca piena di domande essenziali. Sono forme vitali che si devono ancora sviluppare? Si tratta di animali che sono venuti e sono scomparsi tra la sua epoca e questa? Appartengono alla fauna estinta del Miocene e dell’Oligocene e dell’Eocene, dimenticata già perfino ai suoi giorni? È un viaggio meraviglioso in mezzo a un bestiario fantasmagorico, in mezzo a zoccoli e corna e artigli protesi. Questa è la fonte della creazione, questa è la sorgente della vita. Come si fa a distinguere i sogni dalla realtà? Cosa sono queste chimere, e sfingi, e gorgoni, basilischi, grifoni, arpie, ippogrifi, centauri, orchi, nani, elfi, tutta quest’orda di meraviglie disperate? Vengono dal passato, o da un futuro ancora da venire? Sono sogni turbolenti, e nulla più, della Fontana della Vita?

— Umanità — sussurra Clay. — Che ne è dell’umanità?

Vede tutto. Dalla foschia escono figure oscure, circondate di fuoco, pupazzi della creazione. Questa scimmia marrone, è la padrona del teschio di Giava? Questi goffi clown sono dunque gli australopitechi? Che cosa sei tu, massiccio gigante: l’uomo di Heidelberg? Vorrebbe aver studiato di più. Gli si avvicina qualcosa con una piatta testa munita di cresta; incontra il suo sguardo, e gli pare di riconoscere una lontana parentela. Poi, peloso e selvaggio, arriva un inconfondibile Neanderthal, e lo prende per un braccio e lo fissa profondamente negli occhi, ed emana un’aura di intelligenza così intensa, un così accorato rimpianto che Clay si scioglie, un ruscello di lacrime roventi gettate nell’abisso. E chi sono tutti gli altri? Le sconosciute scimmie simili a orsi. I creatori dei dipinti murali delle caverne. Il padrone delle ossa ritrovate a Pechino. I pazienti seminatori del fertile suolo palestinese. I costruttori delle prime città. I primi fabbricatori di manufatti, i primi navigatori, i cacciatori di mastodonti, gli stregoni mascherati, pitturati di giallo e di rosso. Gli scribi, i faraoni, gli astronomi. L’abisso rigetta umanità a velocità maggiore di quanto lui riesca a percepire. Ogni specie, ogni sentiero sbagliato, ogni diramazione dall’albero principale… — Io sono umano — dice il Neanderthal, e — Io sono umano — dice il Pitecantropo, e l’artista peloso delle caverne grida: — Io sono umano — e il piccolo Australopiteco insiste: — Io sono umano — e il re dal suo trono dice: — Io sono umano — e il prete nel suo tempio: — Io sono umano — e l’astronauta nella sua capsula dice: — Io sono umano — e passano veloci accanto a Clay e si perdono nella luce brillante, e lui sussurra: — Io sono umano — perché lo odano tutti quelli che lo circondano.