Выбрать главу

— Adesso stiamo comunicando — dice Clay. — Ci stiamo riuscendo.

La lunga notte finisce. Alle prime luci dell’alba Clay vede tutta una vegetazione che al tramonto non c’era assolutamente: alberi alti con frutti rossi; spire pulsanti e cadenti di viticci colmi di grappoli, grossi frutti che crescono direttamente dal terreno, in mezzo ai quali annuiscono e vibrano minuscole antenne, liberando un polline dalla luminosità del diamante. Hanmer è tornato. Siede a gambe incrociate all’estremità opposta della lastra sulla quale si trova Clay.

— Abbiamo un compagno — dice Clay. — Non so se sia stato il flusso del tempo a prenderlo o se sono stato io, involontariamente. Stavo facendo degli esperimenti dentro la mia testa. Ma in ogni modo, è…

Morto?

Lo sferoide è una massa avvizzita raccolta su un lato della gabbia. Un rivoletto di fluido iridescente è fuoriuscito dalle sbarre. Clay non riesce più a entrare in contatto con la mente dello sferoide, che ormai gli è divenuta familiare. Si avvicina alla gabbia, ci infila incerto due dita, e non sente nessuna scossa.

— Che cosa è successo? — chiede.

— La vita va — dice Hanmer. — La vita torna. Lo porteremo con noi. Vieni.

Camminano in direzione opposta al sole nascente. Senza toccarla, Hanmer spinge la gabbia davanti a loro. Stanno passando in mezzo a un boschetto di piante alte e giallastre le cui foglie rosse, tintinnando al vento come campanellini, allietano l’aria con una dolce musica.

— Hai mai visto creature come questa in precedenza? — chiese Clay.

— Parecchie volte. Il flusso porta un po’ di tutto.

— Ho intuito che si tratta di un’altra forma primitiva. Abbastanza vicina ai miei tempi, in effetti.

— È possibile che tu abbia ragione — dice Hanmer.

— Perché è morto?

— La vita l’ha abbandonato.

Clay si sta abituando sempre più allo stile delle risposte di Hanmer.

Poco dopo fanno una sosta davanti a una bolla di fluido blu scuro in cui nuotano solennemente placche dorate rotonde. — Bevi — suggerisce Hanmer. Clay si inginocchia ai bordi. Allunga una mano, esitante. Il gusto è pepato. Lo pervade di una strana tristezza espansiva, una consapevolezza di opportunità perdute e di occasioni mancate, che sul primo momento minacciano di soverchiarlo; vede tutte le scelte possibili che ogni istante presenta, l’infinità di vie trascurate e oscure contrassegnate da segnali stradali inintelligibili, e si ritrova a percorrere tutte queste strade contemporaneamente, stupefatto, ipersensibilizzato. La sensazione scompare. Piuttosto, si raffina acquisendo una natura più precisa, e si rende conto di aver avuto in dono nuovi mezzi di percezione, che ha usato metaforicamente al posto di quelli spaziali. Beve di nuovo. La percezione si approfondisce e si intensifica. Accetta immagini rutilanti: undici creature notturne dormienti in una galleria profonda appena sotto di lui, il sangue che pulsa come una miriade di scintille all’interno del corpo solido di Hanmer, l’informità nebulosa della carne in putrefazione dello sferoide defunto, i gorgoglii caratteristici interni di queste piccole placche dorate nuotatrici. Beve ancora. Adesso vede con maggior precisione l’interno delle cose. La sua zona di percezione è diventata una sfera cinque volte più alta di lui, con il cervello al centro. Analizza la struttura del suolo, trovando uno strato di mota nera sopra uno strato di sabbia rosa sopra uno strato di sassolini compressi sopra uno strato di blocchi di granito fortemente pressati. Misura le dimensioni della polla e ne sottolinea la curva matematicamente perfetta del fondale. Calcola lo sforzo ambientale provocato dal passaggio contemporaneo di un terzetto di piccole creature simili a pipistrelli proprio sopra di lui, e dalla crescita di sei cellule nelle radici di un albero vicino. Beve ancora. — È così facile essere un dio, qui — dice a Hanmer, e osserva le tonalità della sua voce riecheggiare sulla superficie della polla. Hanmer ride. I due se ne vanno.

4

I suoi nuovi sensi lo abbandonano prima di mezzogiorno. Rimane solo un residuo confuso; riesce ancora a vedere a breve distanza nel terreno, ed è consapevole di eventi che si verificano dietro la sua testa. Ma solo nebbiosamente. Le cose in questo mondo sono troppo transitorie. Spera che troveranno un’altra polla, o che l’Hanmer femmina faccia ritorno, o che la morte dello sferoide giunga alla sua fine.

Davanti a loro si stende adesso un anfiteatro naturale: una vasta e profonda cavità racchiusa da una parte da una serie di enormi macigni ricoperti di licheni blu. Cinque membri della razza di Hanmer sono seduti nei pressi. Tre femmine, due maschi. Hanmer dice: — Faremo l’Apertura della Terra, penso. Il momento è propizio. — La giornata è diventata abbastanza calda; se Clay avesse indosso degli abiti, dovrebbe toglierseli. Il sole pigro è giunto ormai nei pressi dell’orizzonte, e raggi larghi di energia scendono rotolando lungo i pendii dell’anfiteatro. Hanmer non lo presenta agli altri cinque, che sembrano conoscerlo già. Si alzano e lo accolgono con sorrisi sonnolenti e brevi scoppi di musicalità. Ha molta difficoltà a distinguerli l’uno dall’altro, e anche nel distinguere Hanmer dagli altri due maschi. Una femmina ammicca rivolta verso di lui. — Sono Ninameen — gli dice. — Sarai felice qui? Sei venuto per l’Apertura della Terra? È stato doloroso il risveglio? Ti sembro attraente? — Ha una voce molto musicale e melodiosa, acuta e flautata, e assume quella che Clay definisce tra sé una "posizione giapponese". Sembra più debole e più vulnerabile della femmina Hanmer. I residui delle sue percezioni particolari gli mostrano la sensualità che si annida in lei: piccole ghiandole traslucide stanno secernendo ormoni dorati che scendono urlando verso i suoi genitali. La sua disponibilità lo irrita. Improvvisamente si vergogna della sua nudità, del lungo organo che penzola tra le sue cosce; invidia gli uomini della specie di Hanmer per gli attributi sessuali nascosti. Ninameen si gira e si dirige verso le rocce, voltandosi per vedere se lui la sta seguendo. Lui rimane immobile. Hanmer, o uno che lui crede essere Hanmer, ha scelto una femmina e giace accanto a lei in un avvallamento tra la bassa erba spugnosa. La terza femmina e gli altri due maschi hanno cominciato una piccola danza dell’accoppiamento, in mezzo a molte risate e frequenti abbracci. Ninameen, spuntando da dietro un masso, lo bersaglia con pezzettini di lichene. Lui le corre dietro.

Lei è incredibilmente agile. Lui coglie una visione fuggente del suo corpo magro verde-oro già davanti a lui mentre si arrampica sulle rocce aguzze; ansima, suda, tossisce per la stanchezza. Come un satiro, ha un’erezione. Lei spunta da un punto del tutto imprevisto. Un piccolo seno compare là, il sedere piatto dall’altra parte. Inseguita in questo modo, comincia a sembrargli quasi umana, anche se rimangono i residui dell’abisso che li divide: quando lui si ferma osserva il volto piatto di lei, gli occhi scarlatti, le mani da ragno dalle molte dita. Lui sa, dalle visioni fuggenti che ha avuto prima che le sue percezioni tornassero a ottenebrarsi, che l’anatomia interna di lei è mostruosamente estranea, una serie di precisi compartimenti rettangolari collegati da ristretti canali perlacei, che non hanno la minima rassomiglianza con i suoi organi interni, non più di quanto ce l’abbiano quelli di un granchio. Eppure la desidera. Eppure la possiederà.

Raggiunge la sommità del macigno più alto. Dov’è? Guardandosi intorno, non vede nessuno. La punta del macigno è concava e forma un piccolo cratere concavo; l’acqua piovana l’ha riempito e insetti neri nuotano alla superficie, sciamando ed emettendo strani ronzii. Lui scruta l’acqua, pensando che ella potrebbe essersi immersa per sfuggirgli alla vista, ma vede solo la propria immagine riflessa, non dalla superficie dell’acqua, ma dalle profondità di ossidiana. Sembra teso e nervoso, un Neanderthal infiammato dal desiderio. — Ninameen? — chiama. Il suono della sua voce fa risalire bolle nell’acqua, e il riflesso scompare.