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Barbee si riprese il cappotto.

«Ma come!», fece sbalordito. «E tua moglie e la tua bambina? Avete tutti e tre le vostre famiglie a pochi passi di distanza, e non potete trovare un mo­mento per salutarle?»

Un’espressione di muto tormento passò negli occhi di Quain. «Abbraccere­mo i nostri cari appena potremo, Will.» Si mise a frugare tra un mucchio di bagagli e di casse ch’era stato appena scaricato dall’apparecchio, finché non ebbe trovato un vecchio giubbotto di pelle. «Gran Dio, Will», mormorò con voce sorda, «tu dirai forse che non siamo più nemmeno umani. Sono due anni che non vedo mia moglie e mia figlia... ma prima dobbiamo occuparci della cassa di Mondrick.»

«Un momento!», disse Barbee, trattenendolo per il braccio. «Un’ultima do­manda.» Abbassò la voce, per non farsi udire dagli uomini che stavano scari­cando l’aeroplano. «Che cosa c’entrano i gatti con la morte di Mondrick?»

«Eh?» Barbee sentì il braccio di Quain tremare. «Gatti?»

«Sì, gatti.»

Quain s’era fatto pallidissimo, ma rispose: «Ho sentito Mondrick mormora­re, quand’era già in agonia, qualcosa a proposito di un gatto, ma non ne ho visto nessuno».

«Ma perché», insistette Barbee, «doveva pensare a un gatto, proprio in quel momento?»

Gli occhi di Quain lo scrutarono ancora, sotto le palpebre socchiuse.

«L’asma di Mondrick era d’origine allergica», mormorò Quain. «Un’allergia al pelo di gatto. Non poteva entrare in una camera dove fosse stato un gatto senza avere una crisi. Will, hai visto per caso un gatto?»

«Sì, un gattino nero.»

Vide Quain irrigidirsi e, nello stesso istante, April che s’avvicinava, con un passo lungo, armonioso ed elastico, come uno splendido gatto selvatico. La giovane incontrò gli occhi ansiosi di Barbee e gli sorrise allegramente.

«Dove?», sussurrò con impazienza Quain. «Dove hai visto dei gatti?»

Barbee fissò i lunghi occhi di April Bell e qualcosa, dentro, gli disse di non rivelare a Sam Quain che era stata proprio quella ragazza dai capelli rossi a portare un gatto. In April c’era una forza che lo faceva rimescolare e lo trasformava in un modo che preferiva non analizzare. A voce bassa, in gran fretta, rispose di malavoglia:

«Laggiù, dietro il terminal, qualche minuto prima che arrivassero gli aerei. Non ho visto dove sia andato a finire».

Gli occhi di Quain s’erano fatti ostili e sospettosi. Aprì la bocca come per fare un’altra domanda, ma si frenò con una specie di singulto quando si vide April Bell accanto. A Barbee sembrò che si rannicchiasse su se stesso, come un lottatore davanti a un avversario temibile.

«Dunque, lei è il signor Quain!», cinguettò la ragazza dolcemente. «Vorrei chiederle solo una cosa, se non le dispiace... per il Clarendon Call. Che cosa contiene quella cassa verde?» E indicò con lo sguardo il cassone cerchiato di ferro, presso il quale i due uomini stanchi erano sempre di guardia. «Una palata di diamanti? I progetti completi di un nuovo tipo di bomba atomica?»

Saldamente in equilibrio come un pugile sulla punta dei piedi, Sam Quain rispose con voce calma: «Nulla di così interessante, purtroppo, o per lo meno nulla che possa interessare i lettori di un quotidiano. Roba che, se la trovaste per terra andando a spasso, non vi chinereste a raccogliere. Vecchie ossa. Frammenti di anticaglie buttate via come inservibili ancor prima che la storia dell’umanità avesse inizio».

Lei scoppiò a ridere, discreta:

«Abbia pazienza, signor Quain. Ma se la vostra cassa non contiene nulla di valore, allora perché...».

«Voglia scusarmi», la interruppe Quain bruscamente. April lo prese per il braccio, ma l’uomo si svincolò abilmente e si allontanò a passo rapido verso la cassa, dove i due uomini lo stavano aspettando.

«Forse in quella cassa non c’è nient’altro che quello che ha detto», sussurrò April Bell all’orecchio di Barbee, «ma sembrano tutti disposti a dare la vita, come ha fatto Mondrick, per difenderla. Non sarebbe buffo», aggiunse poi quasi in un sospiro, «se lo facessero?»

«Buffo, forse, ma non molto divertente», mormorò Barbee.

Ancora una volta fu attraversato da un brivido. Si allontanò di un passo o due dalla ragazza, perché a un tratto si accorse che non voleva essere toccato da quella pelliccia bianca. Continuava a pensare al gattino. C’era una pos­sibilità, tutt’altro che piacevole, che quella ragazza dai capelli rossi fosse un’assassina estremamente abile. Quasi automaticamente i suoi occhi cerca­rono la borsetta di pelle che aveva contenuto il gattino, e videro che non c’era più. La ragazza parve seguire il suo sguardo, e bruscamente si fece pallidissima:

«La mia borsetta!», gridò, allargando le belle mani vuote. «Devo averla la­sciata in qualche posto, nella fretta di telefonare il servizio. Me l’ha regalata la zia Agatha, e devo assolutamente ritrovarla... c’è un ricordo di famiglia, una spilla di giada bianca. Vuoi aiutarmi a cercarla, Barbee?»

Frugarono dappertutto, dal punto dove s’era fermata l’ambulanza alle cabi­ne telefoniche, senza trovare la borsetta: il che non lo stupì affatto. Si sareb­be stupito, invece, se l’avessero trovata. Alla fine April guardò un orologino incrostato di piccoli diamanti.

«Rinunciamo, Barbee», disse, senza troppo rammarico. «Grazie infinite, ma vedrai che non l’ho perduta, l’avrò lasciata alla zia Agatha, quando le ho ridato Fifi.»

Barbee cercò di non inarcare le sopracciglia, ma continuava a sospettare che la zia Agatha fosse del tutto immaginaria. Ricordava d’aver visto la bor­setta, che le mani della ragazza stringevano convulse mentre Mondrick ago­nizzava, ma non lo disse. Non capiva April Bell.

«Grazie ancora, Barbee», fece lei. «Ora devo telefonare in redazione. E perdonami, se il mio servizio oscurerà il tuo.»

«Se volete tutta la verità, leggete lo Star»,sorrise Barbee citando lo slogan del suo giornale. «Io ho ancora tempo fino a mezzanotte per scoprire il con­tenuto di quella cassa verde e perché Mondrick è morto quando è morto.» Si fece serio, e inghiottendo la saliva: «Quando... quando possiamo rivederci?»

Sentiva il bisogno prepotente di rivederla... forse perché temeva davvero che avesse ucciso Mondrick, o invece perché sperava con tutta l’anima che fosse innocente? Per un istante un’ombra di perplessità le corrugò la fronte. Barbee respirò ancora quando la vide sorridere.

«Quando vuoi, Barbee», rispose con estrema dolcezza, «se lo desideri.»

«Questa sera a cena, allora?», disse subito Barbee cercando di non mostra­re la sua emozione. «Va bene per le nove? Prima voglio scoprire che cosa Quain e compagni intendono fare col loro misterioso cassone, e poi devo scrivere il pezzo.»

«Le nove? Benissimo», rispose lei. «Adoro la notte. E poi, anch’io voglio tenere d’occhio quella cassa.»

Gli occhi della ragazza s’erano volti a guardare gli stanchi esploratori che cautamente caricavano la loro cassa sulla macchina del dottor Bennett. Il gruppetto dei familiari, un po’ in disparte, osservava la scena, stupito e rattri­stato. Barbee toccò la pelliccia immacolata di April e rabbrividì nel vento gelido. «Alle nove, dunque?», disse ancora. «Dove?»

April sorrise bruscamente, inarcando le sopracciglia con una punta d’ironia.

«Questa sera stessa, Barbee?», gorgheggiò. «Nora penserà che tu abbia per­duto la testa.»

«Forse l’ho perduta.» Toccò la pelliccia, e cercò di non rabbrividire. «Sono scombussolato anch’io: Rowena Mondrick mi è sempre amica, anche se suo marito non ha più voluto esserlo. Ma Sam Quain si prenderà cura di tutto. Spero che tu voglia cenare con me stasera, April.»

E spero, aggiunse a se stesso, che finirai per dirmi perché hai portato qui quel gattino nero e perché hai avuto il bisogno di inventare la zia Agatha e se avevi qualche motivo di desiderare la morte di Mondrick.