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Lei lo guardò, mentre i loro bicchieri si sfioravano con un lieve tintinnìo; i suoi occhi enigmatici lo guardarono con una specie di fredda sfida beffarda.

«Dunque... Barbee?»

Lui si sporse innanzi sul minuscolo tavolino ottagonale.

«Alla nostra... serata!» La vicinanza fisica della donna gli toglieva quasi il fiato. «Ascoltami, April, ti prego... voglio sapere tante cose di te... voglio sapere tutto. Tutto quello che sei stata, tutto quello che hai fatto. Voglio sapere della tua famiglia, dei tuoi amici. Di che cosa sogni e che cosa ti piace la mattina a colazione.»

Le labbra rosse si piegarono in un sorriso ironico.

«Mi stupisci, Barbee... il mistero di una donna è quasi tutto il suo fascino.»

Non poté fare a meno di notare ancora una volta la bianca forza ferina dei suoi denti perfetti. Gli facevano venire in mente uno dei racconti sopranna­turali di Poe, la storia di un uomo ossessionato dai denti della donna amata. Cercò di scacciare dalla mente quell’inquietante associazione d’idee e alzò di nuovo il bicchiere. Un brivido inspiegabile glielo fece traballare fra le dita, e il pallido liquido gli spruzzò la mano.

«D’accordo, ma troppo mistero è preoccupante.» Depose il bicchiere con attenzione. «Perché ho veramente paura di te.»

«Davvero?» Stava osservando attentamente il modo con cui si puliva col fazzoletto le dita appiccicose di liquore. «Strano, perché sei tu, Barbee, quel­lo veramente pericoloso.»

Barbee abbassò gli occhi e bevve ancora, a disagio. La sua certezza di essere refrattario ai pericoli rappresentati dalle donne lo stava ormai definitivamen­te abbandonando.

«Vedi, Barbee, ho cercato di ammantarmi in una specie di velo illusorio. E tu mi hai fatto veramente felice mostrando di accettarlo. Ora, perché lo vuoi lacerare?»

«Voglio lacerarlo», disse lui con semplicità. «Ti prego, April, accontenta­mi.»

Un lampo parve scorrere sui suoi capelli di fiamma, mentre lei annuiva.

«E sia, Barbee», rise. «Per accontentarti lascerò cadere il mio velo dipinto.»

Depose il bicchiere e si chinò verso di lui, le braccia incrociate sul tavolo. La sottile fragranza del suo corpo gli salì alle nari, una fragranza sana di bosco, di felci, di foglie umide.

«Sono figlia di agricoltori», disse. «Sono nata in queste campagne, nella contea di Clarendon. I miei genitori avevano una piccola fattoria presso il fiume, subito dopo il ponte della ferrovia. Dovevo fare tutte le mattine un bel tratto di strada a piedi, per andare a prendere l’autobus che mi portava a scuola.»

Le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso beffardo.

«Soddisfatto?», domandò poi. «Il velo è caduto abbastanza?»

Barbee scosse il capo.

«Per nulla», disse. «Ti prego di continuare, perché siamo ancora al punto di prima.»

April parve turbata.

«Ti prego, Will», disse dolcemente. «Preferirei non dirti altro di me... alme­no per questa sera. Quel velo è la mia corazza. Sarei completamente inerme senza, e forse nemmeno troppo simpatica. Non farmelo lacerare. Forse, dopo non ti piacerei più.»

«Ti assicuro che non corri pericoli di questo genere», e nella voce di Barbee c’era una nota aspra. «Ho bisogno che tu continui, perché ho ancora paura di te.»

La ragazza sorseggiò il suo dacquari, e intanto scrutava il volto magro del giovane dagli occhi tristi che le sedeva davanti. Sembrava anche lei, ora, in preda a una segreta tristezza.

«Ti avverto... si tratta di qualcosa di basso e doloroso.»

«Voglio saperlo, per conoscerti e apprezzarti meglio.»

«Speriamo», sospirò lei. Un’ombra impercettibile di disgusto le passò sul volto pallido. «I miei genitori non andavano d’accordo; e questo è il nocciolo di tutto, direi. Mio padre... ma non è il caso di portare alla luce troppi parti­colari sgradevoli. Avevo nove anni, quando mia madre mi portò con sé in California. Gli altri bambini rimasero con mio padre. È per nascondere que­sto triste sfondo che ho voluto creare il mio velo d’illusione.»

Vuotò il bicchiere nervosamente.

«Vedi, mio padre non passò più un soldo alla mamma per il nostro mante­nimento.» La voce della ragazza era piena d’amarezza. «Mia madre riprese il suo nome da ragazza. E si mise a lavorare. Domestica, commessa di negozio, stenografa, comparsa cinematografica, infine qualche particina più che se­condaria. Ma era stata una vita terribile per lei, e volle addestrarmi perché io potessi affrontare l’esistenza meno ingenuamente di lei.

La mamma non aveva molta stima degli uomini, e a ragione, direi. Volle dunque che io imparassi a proteggermi. E fece di me... insomma, diciamo una lupa.» I bei denti lampeggiarono in un sorriso assolutamente privo di allegria. «Ed eccomi qui, Barbee caro. La mamma riuscì a farmi arrivare all’università e a pagare un’assicurazione, così alla sua morte ebbi qualche migliaio di dollari. Quando quel gruzzolo sarà finito, se io farò come lei volle insegnarmi...»

Fece una piccola smorfia e cercò di sorridere.

«E ora hai il quadro completo, Will. Io sono uno spietato animale da pre­da.» Spinse il bicchiere vuoto da parte, bruscamente, in un gesto che non si capiva se fosse d’impaccio o di sfida. «E adesso ti piaccio ancora?»

A disagio sotto la penetrante acutezza di quegli occhi lievemente obliqui, Barbee accolse l’arrivo del cameriere con un senso di sollievo; e ordinò altri due dacquari.

«La squallida realtà dietro il mio povero velo squarciato», riprese April Bell, di nuovo lievemente beffarda, «ti ha fatto passare la paura che t’ispira­vo?»

Barbee si mise a ridere, ma a fatica.

«Come animale da preda», disse, «sei splendidamente equipaggiata. Vorrei solo che i cronisti dello Star fossero una preda pagata un po’ meglio. Ma», e la sua voce si fece grave, «c’è un’altra cosa che mi fa paura.»

La fissò, perché aveva avuto l’impressione precisa che il suo bel corpo sotti­le si fosse impercettibilmente teso, come dinanzi a un pericolo. I suoi occhi, che lo fissavano socchiusi, erano diventati quasi neri. Sembrava davvero una fiera rannicchiata là, dietro quel piccolo tavolo, minacciosa e vigile.

«Dunque?», disse. «Di che cosa hai paura?»

Barbee bevve d’un fiato il suo dacquari.

«April...», cominciò. E s’interruppe, perché ora il delicato ovale del volto che gli stava davanti aveva assunto una espressione remota, fredda, quasi ostile, e i verdi occhi s’erano socchiusi di nuovo, come se April sapesse già quello che lui stava per dire. «April», riprese il giovane, costringendosi a parlare, «è di ciò che è accaduto all’aeroporto.» Si chinò sul tavolo, verso di lei, e un lungo brivido lo percorse dalla testa ai piedi. La sua voce si fece ad un tratto dura, accusatrice. «Sei stata tu a uccidere il gattino nero, ho trovato il corpo della bestiola. E lo hai fatto per provocare la morte di Mondrick.»

S’era aspettato un violento diniego, una sbalordita mancanza di compren­sione delle sue parole, come se veramente il gatto fosse stato ucciso da qual­che monello, comunque una reazione battagliera. Ma era completamente im­preparato alla scena che si verificò. Perché April, copertasi il volto con le mani, i gomiti sul tavolino, piangeva ora silenziosamente, scossa da muti e violenti singulti.

Si sentì smarrito, stupido e inerte davanti a quelle lacrime che aveva provo­cato. Le lacrime lo avevano sempre reso impotente e infelice.

«April, ti prego...», balbettò, «davvero, non intendevo...»

Tacque, nel vedere il cameriere che si avvicinava con due altri dacquari e se ne andava con i due dollari del conto e i bicchieri vuoti.

«April», pregò poi, «perdonami, cara, ti chiedo scusa con tutto il cuore...»