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Burton cominciava a respirare con minor fatica. Si alzò in piedi e si voltò. L’albero sotto il quale si trovava era un abete rosso, alto circa sessanta metri. Accanto a questo, c’era un albero di un tipo che egli non aveva mai visto. Dubitò che fosse mai esistito sulla Terra. (Burton era sicuro di non trovarsi sulla Terra, benché al momento non ne avesse alcuna precisa ragione.) L’albero aveva un grosso e nodoso tronco nerastro, e molti grossi rami che portavano foglie triangolari lunghe circa due metri, di color verde con screziature scarlatte. Era alto circa novanta metri. C’erano anche degli alberi che sembravano querce, larici, tassi, pini.

Qua e là c’erano macchie di altre piante simili al bambù, e in tutti i punti lasciati liberi dagli alberi e dai bambù cresceva un’erba alta poco meno di un metro. Non si vedevano animali. Nessun insetto, nessun uccello.

Burton si guardò attorno per cercare un bastone o una clava. Non aveva la minima idea di che cosa fosse in programma per l’umanità; ma questa, lasciata senza sorveglianza o senza controllo, sarebbe tornata presto allo stato solito. Cioè, passato il primo colpo, la gente avrebbe cominciato a cercare di arrangiarsi, il che significava che alcuni si sarebbero messi a fare i prepotenti a spese di altri.

Burton non trovò nulla che potesse servire da arma. Poi gli venne in mente che come arma si poteva usare il cilindro di metallo. Lo sbatté contro un albero. Benché fosse assai leggero era estremamente robusto.

Burton sollevò il coperchio, che era incernierato all’interno di un’estremità del cilindro. L’interno, cavo, aveva sei supporti elastici, sfasati in modo che ciascuno reggeva una capace tazza, o un piatto, o un contenitore rettangolare di metallo grigio. I sei recipienti erano vuoti. Burton richiuse il coperchio. Senza dubbio, avrebbe scoperto a suo tempo quale fosse lo scopo del cilindro.

A parte tutto il resto, la resurrezione non aveva dato dei corpi fatti di delicato e inconsistente ectoplasma. Burton era tutto di ossa e sangue e carne.

Benché si sentisse ancora alquanto distaccato dalla realtà, come se fosse stato isolato dagli ingranaggi del mondo, si stava rimettendo dall’emozione.

Aveva sete. Doveva scendere al fiume e bere di quell’acqua, con l’augurio che non fosse avvelenata. A questo pensiero ghignò e si passò un dito sul labbro superiore. Il dito provò un’impressione di disappunto. Che curiosa reazione, rifletté Burton. Poi ricordò che i suoi folti baffi erano spariti. E… Ah, sì, si stava augurando che l’acqua del fiume non fosse avvelenata. Che idea bizzarra! A quale scopo far rivivere un morto solo per ucciderlo di nuovo? Ma Burton rimase a lungo sotto l’albero. Detestava dover raggiungere il fiume passando in mezzo a quella folla frenetica e isterica che parlava e singhiozzava senza posa. Lontano dalla calca di costoro, era in buona parte indenne dal terrore e dal panico che li aveva sommersi come una marea. Se si fosse azzardato a tornare là sarebbe rimasto travolto di nuovo dalle loro emozioni.

D’un tratto vide una figura staccarsi dalla ressa nuda e dirigersi verso di lui. E vide che non si trattava di un essere umano.

A questo punto Burton fu sicuro che quel Giorno della Resurrezione non era stato previsto da nessuna religione. Burton non aveva creduto nel Dio descritto dai cristiani, mussulmani, indù o da qualsiasi altra fede. In realtà non era sicuro di credere in alcun Creatore. Egli aveva creduto in Richard Francis Burton e in pochi amici. Ed era sempre stato convinto che, quando fosse morto, il mondo avrebbe cessato di esistere.

CAPITOLO QUARTO

Allorché si era svegliato nella valle accanto a quel fiume, si era trovato senza difesa contro i dubbi che esistono in ogni uomo sottoposto fin dalla nascita a condizionamento religioso e vissuto in una società evoluta che predica ad ogni occasione le proprie convinzioni.

Ma ora, vedendo avvicinarsi l’extraumano, si convinse che doveva esserci un’altra spiegazione dell’accaduto oltre a quella di tipo soprannaturale. La ragione per cui egli si trovava lì era fisica, scientifica; non c’era bisogno di ricorrere ai miti giudeo-cristiani-mussulmani per trovare un motivo.

L’essere (un maschio, senza dubbio) era un bipede alto circa due metri. Il corpo, dalla pelle rosea, era molto snello; ogni mano aveva tre dita e un pollice, e ogni piede quattro dita assai lunghe e sottili. Su! petto, sotto a ciascun capezzolo, c’era una macchia d’un rosso scuro. La faccia era semiumana. Folte sopracciglia nere si allungavano fino agli zigomi prominenti, e si allargavano coprendoli con una peluria bru-nastra. Le narici terminavano con una frangia costituita da una sottile membrana lunga un paio di millimetri. Lo spesso cuscinetto di cartilagine sulla punta del naso aveva un solco profondo. Le labbra erano sottili, coriacee, nere. I padiglioni auricolari non avevano lobi, e le spire non erano di tipo umano. Lo scroto sembrava contenere numerosi piccoli testicoli.

Burton aveva già visto quell’essere galleggiare qualche fila più in là, in quel luogo da incubo.

L’essere si fermò a un metro o due di distanza e sorrise, mostrando denti del tutto umani. — Spero che lei parli inglese — disse. — Ad ogni modo posso parlare abbastanza correntemente in russo, cinese mandarino, indostano.

Burton ebbe un leggero soprassalto, come se un cane o una scimmia gli avessero rivolto la parola.

— Lei parla l’inglese dell’America centro-occidentale — replicò. — E molto bene, anche. Benché con troppa proprietà.

— Grazie — disse l’essere. — L’ho seguita perché lei mi è sembrato l’unico che avesse abbastanza buon senso da allontanarsi da quel caos. Forse lei ha qualche spiegazione per questo… come chiamarlo?… resurrezione?

— Non più di quante ne abbia lei — rispose Burton. — In realtà non ho neppure alcuna spiegazione circa la sua esistenza, prima o dopo la resurrezione.

Le folte sopracciglia dell’extraumano fremettero. Burton doveva poi imparare che tale gesto significava meraviglia o perplessità.

— No? È strano. Avrei giurato che ognuno dei sei miliardi di abitanti della Terra avesse udito di me, o mi avesse visto in TV.

— TV?

Le sopracciglia dell’essere fremettero di nuovo.

— Non sa cos’è…

La sua voce esitò, poi egli sorrise ancora.

— Naturalmente, sciocco che sono. Lei dev’essere morto prima che io venissi sulla Terra!

— Quando accadde questo?

Le sopracciglia dell’extraumano si inarcarono (questo equivaleva ad aggrottarle, come Burton avrebbe scoperto). Poi egli disse lentamente: — Vediamo. Credo che sia stato, secondo la vostra cronologia, nel 2002. Lei quando è morto?

— Devo essere morto nel 1890 — rispose Burton. L’extraterrestre gli aveva fatto tornare la sensazione che tutta quella faccenda non fosse reale. Fece scorrere la lingua all’interno della bocca: i molari che aveva perduto quando la lancia somala gli aveva trapassato le guance erano di nuovo presenti. Ma egli era ancora circonciso, e anche gli altri uomini sull’argine (la maggior parte dei quali si era messa a gridare nell’italiano, nel tedesco o nello sloveno che si parlavano a Trieste) erano circoncisi. Tuttavia, ai suoi tempi, ben pochi maschi di quella regione lo erano.

— O almeno non ricordo nulla dopo il venti ottobre del 1890 — aggiunse.

— Aab! - disse l’essere. — Così io lasciai il mio pianeta natio all’incirca duecento anni prima che lei morisse. Il mio pianeta? Era un satellite di quella stella che voi terrestri chiamate Tau Ceti. Ci ponemmo in animazione sospesa, e quando la nostra nave arrivò nelle vicinanze del vostro Sole noi fummo automaticamente sgelati, e… ma lei non sa di cosa sto parlando, vero?

— Per nulla. Gli eventi si succedono troppo in fretta. Più tardi mi piacerebbe avere dei dettagli. Qual è il suo nome?