Выбрать главу

— Monat Grrautut. E il suo?

— Richard Francis Burton, per servirla.

Fece un leggero inchino e sorrise. Malgrado la singolarità di quell’essere e alcuni particolari fisici repellenti, Burton si sentiva attratto verso di lui.

— Il defunto capitano Sir Richard Francis Burton — aggiunse. — Ex console di Sua maestà nel porto austro-ungarico di Trieste.

— Elisabetta?

— Sono vissuto nel diciannovesimo secolo, non nel sedicesimo.

— Una regina Elisabetta regnò sulla Gran Bretagna nel ventesimo secolo — spiegò Monat.

Si girò verso l’argine.

— Perché sono così spaventati? Tutti gli esseri umani che ho incontrato erano convinti che non ci fosse nulla dopo la morte, oppure, se qualcosa ci fosse stato, che avrebbero ricevuto un trattamento privilegiato.

Burton sogghignò e rispose: — Quelli che negavano l’aldilà sono sicuri di trovarsi all’inferno, appunto perché lo negavano. Quelli che erano sicuri di andare in paradiso saranno sbigottiti, immagino, di trovarsi nudi. Capisce, la maggior parte delle figurazioni rappresentanti l’aldilà mostravano i dannati nudi e i beati vestiti. Così, uno che si trova risorto e nudo come un asino deduce di essere all’inferno.

— Lei sembra divertito — disse Monat.

— Pochi minuti fa non lo ero — replicò Burton. — E sono scosso. Molto scosso. Ma la sua vista mi fa ritenere che le cose siano diverse da come la gente le pensa. Quasi sempre è così. E Dio, se ha intenzione di comparire, non sembra avere molta fretta. Credo che ci sia una spiegazione per tutto ciò, ma non sarà conforme ad alcuna delle ipotesi che conobbi sulla Terra.

— Dubito che siamo sulla Terra — disse Monat. Puntò verso l’alto le sue dita lunghe e sottili, che avevano spessi cuscinetti di cartilagine al posto delle unghie.

Disse: — Se guarda fisso là, riparandosi gli occhi, può vedere un altro corpo celeste vicino al Sole. Non è la Luna.

Burton appoggiò alla spalla il cilindro metallico, mise le mani a coppa intorno agli occhi, e guardò verso il punto indicato. Vide un corpo di debole luminosità, le cui dimensioni sembravano un ottavo di quelle della Luna. Abbassò le mani e chiese: — Una stella?

— Credo di sì — rispose Monat. — Mi sembra d’aver visto altri corpi assai pallidi qua e là nel cielo, ma non ne sono sicuro. Lo sapremo quando verrà notte.

— Dove pensa che siamo?

— Non saprei.

Monat fece un gesto in direzione del sole.

— Sta salendo, perciò scenderà, e poi dovrebbe sopraggiungere la notte. Penso che sarebbe meglio prepararci ad affrontarla. E ad affrontare altri eventi. Fa caldo, e la temperatura è in aumento; ma la notte può essere fredda, e potrebbe piovere. Dovremmo costruire un rifugio qualsiasi. E dovremmo anche pensare a come fare per trovare del cibo. Benché supponga che ci nutrirà questo aggeggio — aggiunse indicando il cilindro.

— Che cosa glielo fa ritenere? — chiese Burton.

— Ho guardato dentro al mio. Contiene piatti e bicchieri, per ora tutti vuoti ma ovviamente fatti per essere riempiti.

Burton sentì diminuire la propria sensazione di irrealtà. Monat (l’essere di Tau Ceti!) parlava in tono così pragmatico e assennato da costituire un’àncora alla quale Burton poteva aggrapparsi prima di impazzire di nuovo. E, malgrado la sua repellente estraneità, quell’essere emanava un senso di amicizia e di lealtà che confortava Burton. Inoltre, qualsiasi essere proveniente da una civiltà in grado di percorrere miliardi di miliardi di chilometri di spazio interstellare doveva possedere considerevoli conoscenze e risorse.

Altre persone si stavano staccando dalla folla. Un gruppo di circa dieci fra uomini e donne veniva lentamente verso di lui. Alcuni parlavano, ma gli altri stavano in silenzio e con gli occhi sbarrati. Non sembrava che avessero in mente una meta precisa: procedevano soltanto, come una nube sospinta dal vento. Quando giunsero vicino a Burton e a Monat si fermarono.

L’uomo che si tirava dietro il gruppo colpì in modo particolare l’attenzione di Burton. Monat, ovviamente, non era umano; ma costui era subumano o pre-umano. Era alto circa un metro e mezzo. Era tarchiato e dotato di muscoli poderosi. La testa tendeva in avanti, su un collo curvo e molto grosso. La fronte era bassa e obliqua. Il cranio era lungo e stretto. Enormi arcate sopraorbitali ombreggiavano occhi d’un marrone scuro. Il naso era un pezzetto di carne con narici arcuate, e le mascelle sporgenti spingevano in fuori le labbra sortili. Forse una volta era stato coperto da un vello scimmiesco, ma ora era privo di peli al pari di ogni altro.

Le immense mani davano l’impressione di poter spremere acqua da una pietra.

Si voltava continuamente a guardare indietro, come temendo che qualcuno gli strisciasse alle spalle. Quando si avvicinava agli umani, questi si scostavano.

Ma un altro uomo si fece avanti e disse qualcosa in inglese al subumano, con voce strozzata. Era evidente che l’uomo non si aspettava di essere compreso, ma stava cercando di mostrarsi amichevole. Il nuovo arrivato era un giovane muscoloso, alto sul metro e ottanta. Aveva un volto che appariva bello se visto di fronte, ma comicamente irregolare di profilo. Gli occhi erano verdi.

Il subumano, quando venne apostrofato, fece un piccolo balzo. Da sotto la sua tettoia ossea scrutò il giovane sorridente. Poi sorrise anch’egli, mostrando grandi denti robusti, e parlò in una lingua che Burton non riconobbe. Indicò se stesso e disse qualcosa che suonava come Kazzintuitruaabemss. Più tardi Burton avrebbe scoperto che questo era il suo nome e che significava L’Uomo-Che-Trucidò-Il-Dentelungo-Bianco.

Gli altri erano cinque uomini e quattro donne. Due degli uomini si erano già conosciuti sulla Terra, e uno di essi era stato il marito di una delle donne. Erano tutti italiani o sloveni morti a Trieste apparentemente intorno al 1890, benché Burton non ne conoscesse nessuno.

— Lei, laggiù — disse Burton indicando l’uomo che aveva parlato in inglese. — Venga avanti. Qual è il suo nome?

L’uomo gli si avvicinò con esitazione. — Lei è inglese, vero? — chiese.

L’uomo parlava col piatto accento dell’America centro-occidentale.

Burton tese la mano e disse: — Sì. Mi chiamo Burton.

L’altro sollevò le sopracciglia glabre e ripeté: — Burton? — Si chinò in avanti ed esaminò il volto di Burton. — Difficile a dirsi… Non può essere …

Si raddrizzò. — Il mio nome è Peter Frigate. F-R-I-G-A-T-E.

Si guardò intorno e disse, con una voce ancor più innaturale: — È difficile parlare in modo coerente. Capisce, siamo tutti in tale stato di sbalordimento. Io mi sento come se fossi rotto in mille pezzi. Ma… eccoci qui… di nuovo vivi… di nuovo giovani… niente inferno… non ancora, almeno. Sono nato nel 1918 e morto nel 2008… a causa di ciò che fece questo extraterrestre… non è stata colpa sua… si stava solo difendendo, capisce.

La voce di Frigate si spense in un sussurro, ed egli rivolse a Monat un sorrisetto nervoso.

Burton chiese: — Lei conosce questo… Monat Grrautut?

— Non di persona — rispose Frigate. — Ma l’ho visto un gran numero di volte alla TV, naturalmente, e ho letto e sentito parlare di lui a sufficienza.

Tese la mano, quasi aspettandosi che fosse respinta. Ma Monat sorrise e gliela strinse.

Frigate disse: — Penso che sarebbe una buona idea riunirci in gruppo. Possiamo aver bisogno di protezione.

— Perché? — chiese Burton, benché lo sapesse benissimo.

— Lei sa come sia corrotta la maggior parte dell’umanità — rispose Frigate. — Una volta che costoro si saranno assuefatti all’idea di essere risorti si metteranno a dar battaglia per le donne e per il cibo e per qualunque cosa li attiri. E penso che dovremmo farci amico questo Neanderthal, o quello che è. Ci sarà sempre utile in un combattimento.