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— Canterò un incantesimo, userò la poca magia che posseggo in aiuto del Signore del Drago, affinché possa liberare l’anima di Alvarlan dall’Inferno — dice Ricia.

IV

Nessuna persona ragionevole biasimerà mai un esploratore interplanetario per aver effettuato calcoli errati in merito all’ambiente in cui si trova, soprattutto quando si deve prendere una qualche decisione, in fretta e sotto tensione. Occasionali errori sono inevitabili: se sapessimo esattamente cosa aspettarci in tutto il Sistema Solare, non avremmo ragione di esplorarlo.

Minamoto

Il modulo si sollevò, ed un velo di polvere cosmica si allontanò dai suoi razzi. Ad un’altitudine di centocinquanta metri, la spinta si ridusse, e l’imbarcazione sostò immota su un pilastro di fuoco.

All’interno della cabina c’era ben poco rumore, solo un basso sibilo ed un rombo profondo ma quasi inudibile. Il sudore copriva il volto di Danzig, gocciolava lucente dalla barba stopposa, inzuppava la tuta impregnandola di sudore: Danzig stava per intraprendere una manovra altrettanto difficile quanto un randezvous, e senza guida.

Con cautela, spinse in avanti una leva, azionando un motore laterale: il modulo saettò in avanti in picchiata e subito le mani di Danzig scattarono sui comandi; doveva calibrare le forze che tenevano sollevato il modulo e quelle che lo spingevano orizzontalmente in modo da ottenere un risultato che lo portasse verso est ad una velocità lenta e costante. I vettori sarebbero cambiati ad ogni istante, come succede ad un uomo che cammini, ed il computer di controllo, pur occupandosi della maggior parte del bilanciamento, non era in grado di svolgere la parte cruciale: era Danzig che gli doveva dire cosa fare.

Il suo pilotaggio era inesperto, come si era reso conto che sarebbe stato. Una maggiore altitudine gli avrebbe dato un più ampio margine d’errore, ma lo avrebbe privato dei punti di riferimento che i suoi occhi scorgevano sul terreno sottostante e sull’orizzonte antistante, senza contare che, una volta raggiunto il ghiaccio, avrebbe per forza dovuto volare basso per trovare la meta, dal momento che sarebbe stato troppo impegnato per poter effettuare un preciso calcolo di navigazione astrale, come avrebbe potuto invece fare a piedi.

Nel tentativo di correggere il suo errore, Danzig compensò eccessivamente ed il modulo precipitò in una diversa direzione. Premette allora il bottone di «pausa» ed il computer riprese il controllo: con il veicolo di nuovo immobile, Danzig si concesse un minuto per riprendere fiato, riacquistare coraggio e rivedere il da farsi. Mordendosi un labbro, fece quindi un nuovo tentativo, e questa volta non andò incontro ad un vero e proprio disastro: con i motori accesi, la scialuppa avanzò barcollando, come ubriaca, sul paesaggio lunare.

L’altura gelata si fece sempre più incombente e vicina; Danzig scorse la sua fragile bellezza e provò un senso di rimpianto all’idea di doverla rovinare, eppure, che significato aveva qualsiasi meraviglia della natura se non era presente una mente cosciente per ammirarla? Spuntò il pendio più basso e lo vide svanire fra volute di vapore.

Sempre più avanti. Sotto quel ribollire, a destra, a sinistra e davanti, quell’architettura da Fiaba crollava. Danzig superò la palizzata, e si venne così a trovare ad appena cinque metri di altezza sulla superficie, con le nubi di vapore che si avvicinavano pericolosamente prima di dissolversi nel vuoto; guardò con fatica fuori dall’oblò e fece apparire sullo schermo una visuale ingrandita della zona circostante, in cerca della sua destinazione.

Un bianco vulcano eruttò, e l’esplosione lo avvolse, costringendolo improvvisamente a volare alla cieca, mentre una serie di impatti raggiungevano lo scafo, colpito da pezzi di roccia scagliati in alto. La brina rivestì il modulo e l’immagine sullo schermo divenne altrettanto vacua quanto quella data dall’oblò. Danzig avrebbe dovuto ordinare al computer di salire, ma era inesperto, e l’istinto spinge un essere umano a correre piuttosto che a saltare, se messo di fronte ad un pericolo. Così, cercò di sfuggire da un lato, e, non avendo l’ausilio della visuale esterna, fece rotolare il modulo su se stesso. Quando si accorse dell’errore commesso, meno di un secondo dopo, era troppo tardi: aveva perso il controllo. Il computer avrebbe potuto riprendere il comando della situazione dopo un po’, ma il ghiacciaio era troppo vicino, ed il modulo andò a sbattere.

— Pronto, Mark — gridò Scobie. — Mark, mi ricevi? Dove sei, per l’amore di Cristo?

L’unica risposta fu il silenzio, e Scobie lanciò alla Broberg una lunga occhiata.

— Sembrava che tutto fosse a posto — osservò l’uomo, — finché abbiamo sentito quel grido e tanto frastuono, e poi niente altro. A quest’ora ci avrebbe già dovuti raggiungere, ed invece è andato incontro a qualche guaio. Spero solo che non sia stato nulla di letale.

— Cosa possiamo fare? — La domanda della Broberg era retorica: avevano bisogno di parlare, di dire qualsiasi cosa, perché Garcilaso era steso accanto a loro, e la sua voce delirante si stava affievolendo in fretta.

— Se non riceviamo cellule d’energia fresche entro le prossime quaranta o cinquanta ore saremo alla fine della nostra pista. Il modulo dovrebbe essere qui vicino da qualche parte, ma sembra che dovremo uscire da questo buco con le nostre sole forze. Aspetta qui con Luis, mentre do un’occhiata in giro in cerca di una pista praticabile.

Scobie si avviò verso il basso e la Broberg si accoccolò accanto al pilota.

— … solo per sempre nel buio… — lo sentì dire.

— No, Alvarlan. — Lo abbracciò. Molto probabilmente, Luis non era in grado di accorgersene, ma lei sì. — Alvarlan, ascoltami. Sono Ricia. Sento nella mente il richiamo del tuo spirito: lascia che ti aiuti, lascia che ti riporti alla luce.

— Sta’ attenta — l’ammonì Scobie. — Siamo troppo vicini ad ipnotizzarci di nuovo, così come stanno le cose.

— Ma potrei riuscire a raggiungere Luis e… confortarlo… Alvarlan, Kendrick ed io siamo fuggiti. Lui sta cercando una via che ci riporti a casa, ed io sto cercando te. Alvarlan, qui c’è la mia mano, vieni a stringerla.

Sul fondo del cratere, Scobie scosse il capo, fece schioccare la lingua, quindi depose l’equipaggiamento: il binocolo lo avrebbe aiutato a localizzare la zona più promettente, mentre un insieme di altri attrezzi, che andavano da un’asta di metallo ad un geosonar portatile, gli avrebbe permesso di farsi un’idea più esatta del tipo di terreno che giaceva sotto lo strato insormontabile di ghiaccio-sabbia. Era vero che la portata di quei mezzi di sondaggio era molto limitata, ma Scobie non aveva il tempo di scavare tonnellate di materiale solo per salire più in alto ad esaminare il terreno. Avrebbe semplicemente dovuto accontentarsi di qualche risultato preliminare, fare un’approssimativa supposizione su quale sentiero si sarebbe dimostrato più accessibile per uscire dalla conca, ed infine sperare di aver avuto ragione.

Scobie escluse dal suo pensiero cosciente la Broberg e Garcilaso quanto più gli era possibile e si mise al lavoro.

Un’ora più tardi, ignorando il dolore, stata sgombrando una zona che attraversava uno strato di roccia: pensava che più avanti ci fosse un blocco di buon solido ghiaccio d’acqua, ma voleva esserne certo.

— Jean! Colin! Mi ricevete?

Scobie si raddrizzò e rimase immobile. Vagamente, sentì la Broberg che diceva:

— Se non posso fare altro, Alvarlan, concedimi di pregare per il riposo della tua anima.

— Mark! — esclamò Scobie. — Stai bene? Cosa diavolo è successo?

— Sì, sto bene, non ho preso botte troppo violente ed il modulo è abitabile, anche se temo che non volerà più. Voi come state? E Luis?