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— Vuoi dire che non capisci il perché? — Il suo naso a becco accennò in direzione dello schermo d’osservazione che ingrandiva il paesaggio della luna. — Possente Iddio! Questo su cui stiamo per atterrare è un mondo nuovo… piccolo, ma un mondo, e strano in modo che non possiamo neppure immaginare. Prima di noi qui non c’è stato nessuno, fatta eccezione per una sonda automatica ed un apparecchio per analisi a terra, anch’esso automatico, che ha cessato ben presto di trasmettere. Non possiamo fare affidamento solo su strumenti e telecamere: dobbiamo usare anche occhi e cervello! — Si rivolse a Scobie. — Questo, tu te lo dovresti sentire nelle ossa, Colin, almeno tu, se non lo fa nessun altro a bordo. Tu hai lavorato sulla Luna, oltre che sulla Terra; nonostante tutti gli insediamenti, nonostante tutti gli studi che sono stati fatti, non ti è mai capitato d’imbatterti ugualmente in qualche brutta sorpresa?

L’uomo massiccio aveva frattanto riacquistato la calma, ed il suo tono di voce aveva di nuovo la morbidezza che ricordava la serenità delle montagne dell’Idaho sulle quali era nato.

— È vero — ammise. — Non si può mai dire di avere troppe informazioni, quando non si è sulla Terra, e neppure di averne abbastanza, se è per questo. — Fece una pausa, poi aggiunse: — Ma la timidezza può ugualmente essere altrettanto pericolosa quanto l’imprudenza… non che tu sia pauroso, Mark — si affrettò ad aggiungere. — Come, tu e Rachel avreste potuto adesso trovarvi a godere una bella pensione…

— Questa era una sfida — replicò Danzig, rilassandosi e sorridendo, — se posso esprimermi in modo così pomposo. Comunque, abbiamo intenzione di tornare a casa, quando avremo finito qui. Dovremmo arrivare in tempo per il Bar Mitzvah di un pronipote o due, cosa per cui bisogna restare vivi.

— Quello che voglio dire — insistette Scobie, — è che se cominci ad agitarti, rischi di venire a trovarti in una situazione peggiore che non se… Oh, lascia perdere. Probabilmente hai ragione e noi non avremmo dovuto cominciare a lavorare di fantasia. Il panorama si è impadronito di noi, ma non succederà più.

Eppure, quando lo sguardo di Scobie tornò a posarsi sul ghiacciaio, in esso non c’era la freddezza dello scienziato, come non c’era neppure negli occhi di Broberg o Garcilaso.

— Il gioco, quel dannato gioco infantile — mormorò Danzig, picchiandosi il pugno sul palmo della mano. — Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare?

II

Possibile che non avessero nulla di meno folle cui pensare? Forse non l’avevano.

Per poter rispondere a questo interrogativo bisogna prima riesaminare un po’ di storia passata. Quando le prime operazioni industriali nello spazio offrirono la speranza di salvare la civiltà, e la Terra, dalla rovina, divenne manifesta la necessità di acquisire conoscenze molto più vaste sugli altri pianeti, prima di passare allo sviluppo di tali operazioni. Gli sforzi in tal senso iniziarono in direzione di Marte, il pianeta meno ostile. Nessuna legge naturale proibiva l’invio di una piccola astronave con equipaggio laggiù, ma a sconsigliare l’impresa era l’assurdità di impiegare così tanto carburante, tempo e fatica quanti erano necessari, al solo scopo di permettere ad un gruppetto di persone di trascorrere pochi giorni in un’unica località.

La costruzione del J. Peter Vajk richiese più tempo e costi maggiori, ma diede il suo corrispettivo quando la nave, virtualmente una colonia in se stessa, spiegò la sua immensa vela solare e trasportò un migliaio di persone alla meta in sei mesi e con una certa comodità. Quel corrispettivo crebbe in maniera impressionante allorché i coloni spedirono sulla Terra, dalla stazione orbitale, la percentuale dei preziosi minerali di Phobos di cui non avevano bisogno per i loro scopi. Quegli scopi, naturalmente, prevedevano uno studio il più completo possibile, ed a lungo termine, di Marte, compreso l’invio sul pianeta di moduli ausiliari per permanenze sempre più prolungate su tutta la superficie.

È sufficiente richiamare alla memoria questi dati; non serve passare alla descrizione dettagliata del trionfo di questo sistema in tutta la zona interna del Sistema Solare, fino a Giove. La tragedia del Vladimir divenne un incentivo per compiere un altro tentativo alla volta di Mercurio, e, in maniera secondaria e politicamente motivata, indusse il consorzio Britannico-Americano a varare il progetto Chronos.

Il nome dato a quell’astronave era più appropriato di quanto s’immaginasse, dal momento che il tempo richiesto per il viaggio fino a Saturno era di otto anni.

Non sono solo gli scienziati a dover essere gente sana e dalla mente attiva. Membri d’equipaggio, tecnici, medici, amministratori, insegnanti, sacerdoti, intrattenitori… ogni elemento di un’intera comunità deve essere tale. Ciascuno deve possedere più di una singola capacità, per una eventuale sostituzione d’emergenza, e deve mantenere attive quelle capacità mediante una regolare e noiosa ripetizione. L’ambiente era limitato ed austero, le comunicazioni con la patria si trasformarono ben presto in una serie di impulsi radio; individui cosmopoliti si trovarono a vivere in quello che era in pratica una sorta di villaggio isolato. Che cosa potevano fare?

C’erano compiti assegnati: progetti civili, specialmente lavori destinati ad apportare migliorie all’interno dell’astronave; lavori di ricerca, stesura di libri, studio di qualche materia, attività sportive, clubs per coltivare hobby, organizzazioni per fornire servizi o manifatture, interazioni di tipo più privato, oppure… C’era un’ampia scelta di nastri televisivi, ma il Controllo Centrale li rendeva disponibili soltanto per tre ore ogni ventiquattro, per evitare d’incoraggiare l’abitudine alla passività.

I singoli individui borbottavano, litigavano, formavano e scioglievano combriccole, formavano e scioglievano matrimoni o relazioni di tipo meno esplicito, generavano ed allevavano occasionali figli, adoravano, deridevano, imparavano, desideravano, e, per lo più, trovavano una ragionevole soddisfazione nella vita. Ma per alcuni, compresa una grossa porzione degli individui più dotati, ciò che marcava la differenza fra quella vita e l’infelicità erano i loro psicodrammi.

Minamoto

La luce dell’alba scivolò oltre il ghiaccio, fino alla roccia: era una luce al contempo tenue e violenta, ma sufficiente a fornire a Garcilaso gli ultimi dati necessari alla discesa.

Il sibilo del motore si spense, un impatto fece tremare lo scafo, poi i sostegni d’atterraggio assorbirono l’urto e scese l’immobilità. L’equipaggio rimase in silenzio per qualche tempo, lo sguardo fisso su Iapetus.

Nella zona immediatamente circostante regnava una desolazione come quella che regna nella maggior parte del Sistema Solare. Una pianura velata d’oscurità s’incurvava visibilmente verso un orizzonte che, ad altezza d’uomo, distava appena tre chilometri. Dall’altezza della cabina, si poteva vedere più lontano, ma questo serviva soltanto ad accentuare la sensazione di trovarsi su una piccola palla roteante fra le stelle. Il suolo era coperto da un velo sottile di polvere cosmica e ghiaia; qua e là un cratere secondario o una massa sporgente si sollevava per proiettare lunghe, taglienti ombre, di un nero assoluto. I riflessi luminosi riducevano il numero di stelle visibili e trasformavano il cielo in una coppa colma di oscurità notturna. A mezza strada fra lo zenith ed il sud, una metà di Saturno e dei suoi anelli rendeva il panorama splendido.

Lo stesso faceva il ghiacciaio… o i ghiacciai? Nessuno lo sapeva per certo. L’unica conoscenza era che, visto da lontano, Iapetus aveva un vivido splendore nella parte occidentale della sua orbita mentre diventava opaco in quella orientale, perché un lato era coperto di un materiale biancastro mentre l’altro non lo era. La linea di divisione passava a poca distanza e quasi al di sotto del pianeta che Iapetus fronteggiava eternamente. Le sonde inviate dal Chronos avevano riferito che lo strato bianco era spesso, con uno spettro che lasciava perplessi e che variava da un punto all’altro, e poche altre cose.