Выбрать главу

«Ti raggiungerò, James», mormorai. «Puoi starne certo. Ma ci sono altre cose che devo fare, adesso. Architetta pure i tuoi piani, per il momento.»

Poi m’innalzai a poco a poco, più lentamente che potei, finché non mi trovai molto in alto, sopra la nave. La guardai, ammirando i numerosi ponti, decorati con tante piccole luci gialle. Appariva così festosa, così lontana da ogni affanno. Avanzava coraggiosamente sul mare agitato, muta e potente, portando con sé tutto il suo piccolo regno di esseri che danzavano, cenavano e chiacchieravano, d’indaffarati addetti alla sicurezza e di camerieri frettolosi. Centinaia e centinaia di creature felici che non avrebbero mai immaginato che noi eravamo stati lì a disturbarle col nostro piccolo dramma, o che ce n’eravamo andati rapidamente com’eravamo arrivati, lasciando solo un po’ di confusione dietro di noi. Pace alla felice Queen Elizabeth 2, pensai. Tuttavia sapevo perché il Ladro di Corpi l’aveva amata, e perché si era nascosto su di essa, benché fosse triste e pacchiana.

Dopotutto, cos’è il nostro mondo per le stelle del ciclo? Cosa pensano esse del nostro piccolo pianeta, pieno di accostamenti folli, casi fortuiti e lotte senza fine? E cosa pensano delle folli civiltà sparse sul pianeta e tenute insieme non dalla volontà, dalla fede o da un obiettivo comune, bensì dalla sognante capacità, da parte dei milioni di abitanti, di dimenticare le tragedie della vita per sprofondare nella felicità ancora una volta, e poi un’altra, proprio come facevano i passeggeri di quella piccola nave? Pareva che la felicità fosse per tutti gli esseri umani una cosa naturale come la fame, il sonno o la ricerca del tepore e il timore del freddo.

Mi innalzai sempre più finché non potei più vedere la nave. Il volto del mondo sotto di me era solcato da nuvole. Sopra di me, le stelle ardevano in tutta la loro fredda maestà e, per una volta, non le odiai. No, non potevo odiarle, non potevo odiare nulla: ero troppo pieno di gioia e di oscuro, amaro trionfo. Ero Lestat, che oscillava tra l’inferno e il paradiso, e soddisfatto di esserlo forse per la prima volta.

24

La foresta pluviale del Sudamerica: il grande, profondo intrico di alberi che si estende per chilometri e chilometri, coprendo i fianchi delle montagne e infittendosi in valli profonde, interrotto soltanto da ampi fiumi scintillanti e laghi rilucenti. Come sembrava verde, rigogliosa e apparentemente innocua vista dall’alto, attraverso le nuvole in movimento.

Quando ci si trova sul terreno soffice e umido, l’oscurità è impenetrabile. Gli alberi sono così alti che non si vede il cielo sopra di essi. La creazione non consiste in nient’altro che lotta e pericolo, in mezzo a quest’ombra umida. È il trionfo definitivo del Giardino Selvaggio e tutti gli scienziati del mondo civile non potranno mai classificare ogni specie di farfalla colorata, di felino maculato, di pesce carnivoro o di serpente gigante che vive in questo luogo.

Tra i rami umidi lampeggiano uccelli con piume del colore del cielo estivo o del sole cocente. Le scimmie urlano mentre, con le loro piccole e abili mani, afferrano liane spesse come funi. Mammiferi sinuosi e sinistri di tutte le forme e le dimensioni strisciano, cercandosi l’un l’altro sopra radici mostruose e tuberi semisepolti, sotto gigantesche foglie fruscianti e lungo i tronchi contorti di alberelli che muoiono nella fetida oscurità mentre succhiano l’ultimo nutrimento dal terreno maleodorante.

È un ciclo brutale e infinitamente vigoroso, quello della fame e della sazietà, della morte violenta e dolorosa. Rettili dagli occhi duri e splendenti come opali banchettano senza posa sul brulicante universo d’insetti che si affollano e crepitano, come fanno dall’epoca in cui, sulla terra, non camminavano creature a sangue caldo. E gli insetti — con ali e zampe, gonfi di veleno mortale, impressionanti per ripugnanza e terrorizzante bellezza, più forti di ogni astuzia — alla fine banchettano su tutto.

Non c’è pietà in questa foresta. Né pietà, né giustizia, né rispettoso apprezzamento del suo splendore, né sommesse esclamazioni di gioia di fronte alla bellezza della pioggia che cade. Perfino l’astuta scimmia è in fondo un’idiota.

O meglio: non c’era niente del genere fino alla venuta dell’uomo.

Nessuno può dire con certezza quante migliaia di anni fa ciò sia accaduto. La giungla divora le sue ossa. Inghiotte silenziosamente manoscritti sacri mentre rosicchia le pietre del tempio. Tessuti, cesti intrecciati, ceramiche dipinte e perfino ornamenti di oro battuto alla fine si dissolvono sulla sua lingua.

Ma i popoli dal corpo piccolo e dalla pelle scura sono lì da molti secoli, questo è fuori discussione, occupati a dar vita ai piccoli fragili villaggi formati da capanne di fronde di palma e da fumanti focolari per cucinare, e a cacciare la selvaggina abbondante con rozze lance e micidiali frecce intrise di veleno. In alcuni luoghi, quei popoli costruiscono piccole fattorie ordinate per coltivare grosse patate dolci o rigogliosi avocado verdi, peperoni rossi e granoturco, un mucchio di granoturco giallo, tenero e dolce. All’esterno delle casette costruite con cura, piccole galline becchettano nella polvere. Maiali grassi e lucidi grugniscono accoccolati nei loro recinti.

Sono forse questi uomini la cosa migliore del Giardino Selvaggio, questi uomini che si sono fatti la guerra per tanto tempo? Oppure ne sono una componente indistinguibile dalle altre, non più complessa, alla fine dei conti, del centopiedi che striscia, del flessuoso giaguaro dal manto vellutato o della silenziosa rana dai grandi occhi, così velenosa che il semplice contatto col suo dorso maculato conduce alla morte?

Cos’hanno a che fare le numerose torri della grande Caracas con questo proliferante mondo senza fine che le arriva così vicino? Da dove spunta questa metropoli del Sudamerica, coi suoi cicli pieni di smog e i suoi vasti, poveri, brulicanti sobborghi sui fianchi delle colline? La bellezza è tale ovunque la si veda. Di notte, perfino i ranchitos — così vengono chiamate le migliaia e migliaia di catapecchie che ricoprono i ripidi pendii sui lati delle autostrade rombanti — sono belli, perché, sebbene non abbiano acqua, né fognature, e siano affollati ben oltre ogni moderna concezione di salubrità o di comodità, appaiono tuttavia adornati di luci elettriche intense e scintillanti.

A volte sembra che la luce possa trasformare qualunque cosa! Che sia un’innegabile e irriducibile metafora della grazia? Ma la gente dei ranchitos lo sa? È per bellezza che lo fanno? O vogliono soltanto un’illuminazione confortevole nelle loro piccole baracche?

Non ha importanza.

Non possiamo impedirci di creare la bellezza. Non possiamo fermare il mondo.

Guardate in basso, verso il fiume che scorre oltre il piccolo avamposto di St. Laurent, un nastro di luce che s’intravede per un istante dalle cime degli alberi mentre s’inoltra sempre più nella foresta, per giungere infine alla piccola Missione di St. Margaret Mary, un gruppo di casupole in una radura intorno alla quale la giungla attende con pazienza. Non è forse meraviglioso questo grappolo di edifici dal tetto di latta, coi muri imbiancati a calce e con le rozze croci, con le piccole finestre illuminate e con una radio solitaria che suona una canzone fatta di parole indiane e di tamburi che rullano allegramente?

Come sono graziose le ampie verande dei piccoli bungalow, con le altalene di legno dipinto e le panchine e le sedie sparse. Le persiane alle finestre donano alle camere una dolce grazia sonnolenta, perché formano una fitta griglia di linee sottili contro i numerosi colori e le molte forme, rendendo tutto in qualche modo più nitido, visibile e vibrante, e facendo somigliare quelle stanze agli interni di un quadro di Edward Hopper o alle figure sgargianti di un libro per bambini.