Выбрать главу

È ovvio che c’è un modo per arrestare il dilagante diffondersi della bellezza. Si chiama irregimentazione, conformismo, estetica da catena di montaggio, trionfo del funzionale sull’accidentale.

Ma non c’è molto del genere qui!

Questo è il destino di Gretchen, un esperimento dal quale sono state eliminate tutte le sottigliezze del mondo moderno: un laboratorio per un unico esperimento morale e ripetitivo. Si chiama: fare il bene.

La notte canta invano la sua canzone di caos, fame e distruzione intorno a questo piccolo accampamento. Ciò che qui conta è la cura di un numero pressoché infinito di esseri umani che sono venuti per essere vaccinati, per sottoporsi a interventi chirurgici, per assumere antibiotici. L’aveva già detto Gretchen: il disegno più ampio non significa nulla.

Per ore vagai in cerchio attraverso la giungla, muovendomi spensierato e forte attraverso la vegetazione fittissima, arrampicandomi sulle alte radici degli alberi della foresta pluviale, fermandomi qua e là per ascoltare il profondo coro intricato della notte selvaggia. Erano così teneri gli umidi fiori di cera che crescono sui rami alti più verdeggianti, addormentati nella promessa della luce della mattina.

Ancora una volta, non provavo il minimo timore di fronte alla bruttezza umida e decadente. Ah, quel tanfo di putrefazione in una sacca di palude… Quelle cose striscianti non potevano farmi del male e perciò non mi disgustavano. Oh, che l’anaconda venga pure a cercarmi, mi piacerebbe sentire quell’abbraccio stretto, scattante. Come assaporavo le grida profonde, stridule degli uccelli, di certo tese a indurre il terrore in un cuore più semplice. Che peccato che le scimmiette dalle lunghe braccia dormissero durante le ore più buie, perché mi sarebbe piaciuto acchiapparle per il tempo sufficiente a baciare le loro fronti aggrottate o le loro mobilissime bocche prive di labbra.

E quei poveri mortali, addormentati nelle numerose, piccole case della radura, vicino ai loro campi coltivati con cura, alla scuola, all’ospedale e alla cappella, sembravano un divino miracolo della creazione in ogni minuscolo dettaglio.

Mi mancava Mojo. Perché non era lì, ad aggirarsi in quella giungla con me? Dovevo addestrarlo perché diventasse il cane di un vampiro. Me lo vedevo a fare la guardia alla mia bara durante le ore del giorno: una sentinella in stile egizio, con l’ordine di squarciare la gola a qualunque intruso mortale che riuscisse a trovare la strada per giungere a me.

Ma lo avrei visto presto. Al di là di quella giungla mi attendeva il mondo intero. Quando chiudevo gli occhi e facevo del mio corpo un ricevitore sensibile, potevo udire l’intenso traffico rumoroso di Caracas, i toni aspri delle sue voci amplificate, l’intensa musica rombante di quelle tane climatizzate in cui avrei attirato a me gli assassini, come falene verso una candela splendente, così da potermi nutrire.

Lì regnava la pace, mentre le ore scorrevano nell’ovattato, appagante silenzio dei tropici. Uno scroscio di pioggia scese dal ciclo basso e nuvoloso a compattare la polvere della radura, chiazzando i gradini puliti della scuola e picchiettando sui tetti di latta ondulata.

Nei piccoli dormitori e negli edifici esterni si spensero le luci. In fondo alla cappella buia col campanile basso e con la grossa, lucida campana silenziosa, tremolava soltanto una debole luce rossa. Sui vialetti puliti e sui muri imbiancati a calce arrivava la luce di piccole lampadine gialle in tondi paralumi metallici.

La luce si affievolì nel primo dei piccoli edifici dell’ospedale, dove Gretchen lavorava, da sola.

Scorgevo a tratti il suo profilo stagliarsi contro le persiane. La intravidi appena dentro la soglia, seduta a una scrivania il tempo necessario per scribacchiare qualche annotazione su un pezzo di carta, con la testa piegata e i capelli raccolti sulla nuca.

Alla fine mi mossi silenziosamente verso l’ingresso e scivolai nel piccolo ufficio ingombro, dotato di una sola lampada abbagliante, e mi avvicinai alla porta che dava sulla corsia.

L’ospedale dei bambini! Erano tutti letti piccoli. Rozzi, semplici, su due file. Stavo forse immaginando le cose, in quella semioscurità? Oppure i letti erano di legno grezzo, legati alle estremità e ricoperti di rete? E quello sul tavolino scolorito non era forse un mozzicone di candela in un piattino?

Improvvisamente mi girò la testa. La mia vista così limpida si offuscò. No, non quell’ospedale! Sbattei gli occhi, cercando di separare gli elementi assurdi da quelli che avevano un senso. Sacchi di plastica di nutrimento per endovena brillavano sui loro sostegni cromati accanto ai letti, tubi di nylon senza peso luccicavano, scendendo fino ai minuscoli aghi infilati in piccole braccia sottili!

Quella non era New Orleans. Non era quel piccolo ospedale! Eppure… guarda i muri! Non sono forse di pietra? Asciugai il sottile velo di sudore di sangue sulla mia fronte, fissando le macchie sul fazzoletto. Non era una bambina dai capelli biondi quella che giaceva sul lettino, laggiù? Ancora una volta fui preso dal senso di vertigine. Mi sembrò di udire una debole risata acuta, piena di allegria e derisione. Ma di certo si trattava di un uccello, là fuori nella grande oscurità. Non c’era nessuna infermiera anziana, con una gonna tessuta in casa che le arrivava alle caviglie e un foulard sulle spalle. Non c’era più da secoli, come non c’era più quel piccolo edificio.

Ma la bambina stava gemendo. La luce si rifletteva sulla sua testolina rotonda. Vidi la sua mano paffuta sulla coperta. Cercai di nuovo di schiarirmi la vista. Un’ombra cadde sul pavimento accanto a me. Sì, guarda, il quadro di controllo con le sue minuscole luci brillanti e l’armadio di vetro delle medicine! Non quell’ospedale, ma questo ospedale.

Allora sei venuto per me, padre? Mi avevi detto che lo avresti fatto di nuovo.

«No, non le farò del male! Non voglio farle del male.» Stavo mormorando?

Lontano, alla fine della stretta camera, lei era seduta sulla piccola sedia, coi piedini che scalciavano, mentre i capelli acconciati in riccioli eleganti le ricadevano sulle maniche a sbuffo.

Oh, sei venuto per lei. Lo sai che è così!

«Sstt, sveglierai i bambini! Vattene. Tu non ci sei!»

Tutti sapevano che avresti vinto. Sapevano che avresti sconfitto il Ladro di Corpi. Ed eccoti qui… per lei.

«No, non per farle del male. Ma per mettere la decisione nelle sue mani.»

«Posso aiutarla, Monsieur?»

Alzai lo sguardo sul vecchio che mi stava di fronte, il medico dai baffi macchiati e gli occhialini. No, non quel medico! Da dove veniva? Fissai la targhetta col nome. Questa è la Guyana Francese. Ecco perché parla francese. E non c’è nessuna bambina in fondo alla corsia, seduta su una sedia.

«Per vedere Gretchen», sussurrai. «Sorella Marguerite.» Mi sembrava che fosse nell’edificio… Mi era parso di averla vista attraverso le finestre. Sapevo che era lì.

Rumori sordi all’estremità della corsia: lui non poteva sentirli, ma io sì. Stava arrivando. Improvvisamente percepii il suo odore, mescolato a quello dei bambini e del vecchio.

Ma nemmeno coi miei occhi riuscivo a guardare quel bagliore intollerabile. Da dove veniva la luce in quel posto? Aveva appena spento la lampadina elettrica sulla porta e stava percorrendo l’intera corsia, letto dopo letto, con passi veloci e determinati, e col capo chino. Il medico fece un piccolo gesto fiacco e mi lasciò.

Non fissare i baffi macchiati. Non fissare gli occhiali o la gobba della sua schiena piegata. Insomma, hai visto la targhetta di plastica col nome sul taschino. Non è un fantasma!