Forse.
Nel tempio trovai due porte. La prima era bloccata da grossi massi irregolari. Ma l’altra era aperta, perché le pietre si erano sbriciolate molto tempo prima fino a ridursi a un mucchio informe. Salendoci sopra, mi feci strada lungo una ripida scalinata, poi attraverso diversi cunicoli, fino a raggiungere dei locali in cui la luce non penetrava affatto. Fu in uno di quelli, molto fresco e isolato dai rumori della giungla, che mi sdraiai per dormire.
Vi abitavano minuscole cose striscianti. Quando appoggiai il viso sul pavimento freddo e umido, sentii una miriade di piccole creature muoversi intorno alla punta delle mie dita. Udii il loro fruscio. E poi la pesante pressione vellutata di un serpente mi attraversò una caviglia. Tutto ciò mi fece sorridere.
Come si sarebbe rannicchiato, come avrebbe tremato il mio corpo mortale! Era tuttavia innegabile che i miei occhi mortali non sarebbero mai riusciti a vedere in quel luogo sotterraneo.
Improvvisamente cominciai a tremare e a piangere, pensando a Gretchen. Sapevo che non avrei mai più sognato Claudia.
«Cosa volevi da me?» mormorai. «Pensavi davvero che avrei potuto salvarmi l’anima?» La vidi come mi era apparsa nel delirio, in quel vecchio ospedale di New Orleans, quando l’avevo afferrata per le spalle. Oppure era avvenuto nel vecchio albergo? «Ti avevo detto che l’avrei fatto ancora. Te l’avevo detto.»
Qualcosa era stato salvato in quel momento. Era stata salvata la tenebrosa dannazione di Lestat, che ora era intatta per sempre.
«Addio, mie care», mormorai ancora.
Poi dormii.
26
Ah, Miami, la mia splendida metropoli del sud, distesa sotto il ciclo lucente dei Caraibi, checché ne dicano le carte geografiche! L’aria sembrava persino più dolce che nelle isole, e soffiava sulle inevitabili folle di Ocean Drive.
Attraversando in fretta l’elegante atrio art déco del Park Central, raggiunsi le mie stanze, mi levai di dosso gli abiti sciupati nella giungla e presi dal mio guardaroba una camicia bianca con collo alla coreana, una giacca con cintura, un paio di pantaloni kaki e uno di stivali marroni di cuoio liscio. Era una bella sensazione liberarsi degli abiti acquistati dal Ladro di Corpi, anche se mi stavano bene.
Poi chiamai subito la reception e scoprii che David Talbot si trovava nell’albergo sin dal giorno prima e che mi stava aspettando sulla veranda del Bailey’s Restaurant, in fondo alla strada.
Non mi andava di stare in luoghi pubblici affollati. Lo avrei persuaso a tornare nelle mie stanze. Di sicuro era esausto. Il tavolo e le sedie di fronte alle finestre sarebbero stati un luogo decisamente migliore per parlare, come avevamo intenzione di fare.
Uscii e percorsi verso nord il marciapiede affollato finché non vidi il Bailey’s con la sua sgargiante scritta al neon sopra i bei tendoni bianchi e i tavolini, ricoperti di lino rosa e decorati con candele, già occupati dalla prima ondata di folla serale. Nell’angolo più lontano della veranda scorsi la familiare sagoma di David, molto formale nel completo di lino bianco che aveva indossato sulla nave. Mi osservava con la sua solita espressione arguta e curiosa in volto.
A dispetto del sollievo che provavo nel vederlo, lo colsi deliberatamente di sorpresa, scivolando sulla sedia di fronte a lui in modo così veloce da farlo sobbalzare.
«Ah, che demonio sei», sussurrò. Vidi la sua bocca indurirsi per un istante, come se fosse davvero irritato, ma poi sorrise. «Grazie a Dio, stai bene.»
«Pensi davvero che questa sia l’espressione giusta?» chiesi.
Quando apparve il giovane e bel cameriere gli dissi che volevo un bicchiere di vino, ma solo perché volevo sbarazzarmi di lui. A David era già stato servito un drink esotico dal colore orripilante.
«Cos’è successo davvero?» chiesi, allungandomi appena sopra il tavolo in modo che la mia voce fosse udibile pur nel chiasso generale.
«Be’, è stato un disastro», esordì. «Ha cercato di aggredirmi… Non ho potuto far altro che usare la pistola. Ma lui è scappato oltre la veranda, perché non riuscivo davvero a tenere ferma quell’arma maledetta. Era troppo grande per queste vecchie mani.» Sospirò. Sembrava stanco, logorato fino al limite. «Quindi ho chiamato la Casa Madre e loro mi hanno tirato fuori dei guai. Ci sono state molte chiamate tra la Cunard e Liverpool.» Fece un gesto noncurante. «A mezzogiorno, mi trovavo su un aereo per Miami. Non volevo lasciarti a bordo senza assistenza, ma non c’era davvero scelta.»
«Non sono mai stato in pericolo», dichiarai. «Avevo paura per te. Ti avevo detto di non temere per me.»
«Be’, è quello che ho pensato anch’io. Li ho mandati a caccia di James, sperando di costringerlo ad abbandonare la nave. Ma era ovvio che non potevano nemmeno prendere in considerazione l’idea di perquisire la nave cabina per cabina. Così ho pensato che ti avrebbero lasciato in pace. Sono quasi certo che James sia sbarcato subito dopo lo scontro. Altrimenti lo avrebbero catturato. Ho fornito loro una descrizione completa.» Tacque, bevve un sorso del suo drink sgargiante e lo posò di nuovo sul tavolo.
«Non ti piace quella roba, vero? Dov’è il tuo disgustoso scotch?»
«Questa è la bevanda delle isole», rispose. «No, non mi piace, ma non importa. A te com’è andata?»
Non risposi. Lo stavo guardando con la mia vecchia visione: la sua pelle era più traslucida e tutte le piccole infermità del suo corpo apparivano evidenti. E tuttavia era circonfuso di un alone di meraviglia, come quello che tutti i mortali possiedono, agli occhi di un vampiro.
Sembrava stanco, oppresso dalla tensione nervosa. I suoi occhi erano arrossati. Notai di nuovo una certa rigidità della bocca e le spalle sembravano più curve. Che quell’orribile prova lo avesse ulteriormente invecchiato? Era una cosa che non sopportavo di vedere in lui. Però in quel momento, mentre mi guardava, il suo volto rispecchiava una sincera preoccupazione.
«Ti è capitato qualcosa di brutto», disse in tono ancora più dolce e posando le dita sulla mia mano. Com’erano calde. «Lo vedo nei tuoi occhi.»
«Non voglio parlarne qui», replicai. «Vieni al mio albergo.»
«No, restiamo qui», ribatté con dolcezza. «Soffro d’angoscia, dopo tutto ciò che è successo. È stata una dura prova, davvero, per un uomo della mia età. Sono esausto. Speravo che tu arrivassi la notte scorsa.»
«Mi dispiace non esserci riuscito. Avrei dovuto, certo. Sapevo che la nostra avventura sarebbe stata una prova terribile per te, anche se ti è piaciuta, vero?»
«È questo che pensavi?» Sorrise con tristezza. «Ho bisogno di bere qualcos’altro. Cosa dicevi? Scotch?»
«Cosa dicevo /o? Credevo che fosse il tuo drink preferito.»
«Ogni tanto», rispose. Fece un cenno al cameriere. «A volte è un po’ troppo… serio.» Chiese se avevano un puro malto. Non l’avevano. Il Chivas Regal sarebbe andato bene. «Grazie per avermi assecondato. Mi piace qui. Mi piace la confusione tranquilla. Mi piace l’aria aperta.»
Persino la sua voce suonava stanca. Non aveva scintille. Insomma, non era proprio il momento di proporre un viaggio a Rio de Janeiro. Ed era tutta colpa mia.
«Come vuoi tu», dissi.
«Adesso raccontami cos’è successo», mi esortò. «Vedo che hai un peso sul cuore.»
Fu allora che mi resi conto del mio intenso desiderio di parlargli di Gretchen. Anzi era proprio quello il motivo per cui mi ero precipitato là, un motivo forte almeno quanto la mia preoccupazione per lui. Mi vergognavo e tuttavia non potevo trattenermi dal raccontargli tutto. Mi voltai verso la spiaggia, col gomito sul tavolo e gli occhi come annebbiati, così che i colori del mondo serale si attenuarono e divennero più luminescenti di prima. Gli dissi che ero andato da Gretchen perché avevo promesso di farlo, anche se, nel profondo del cuore, speravo e pregavo di portarla con me nel mio mondo. E poi gli raccontai dell’ospedale, della sua assoluta stranezza: della somiglianza tra il medico e quello di secoli prima, della piccola corsia e di quella folle, pazza idea che Claudia fosse là.