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Arretrai ancora, con le gambe che mi tremavano come se fossi stato un mortale, afferrandomi la testa con le mani mentre sbirciavo quell’orribile spettacolo attraverso gli occhiali da sole, osservando la folla che si radunava a mano a mano che la gente smetteva di passeggiare, si alzava dai tavoli dei ristoranti vicini e si avvicinava alle porte dell’albergo.

Ormai mi era praticamente impossibile vedere in maniera normale, ma rubai le immagini dalle menti dei mortali e la scena si materializzò davanti a me: la pesante lettiga veniva trasportata attraverso la hall, con legato sopra il corpo inerme di David, e i portantini obbligavano la gente a farsi da parte.

Le porte dell’ambulanza si chiusero con un tonfo. La sirena riprese a emettere il suo spaventoso ululato e il veicolo schizzò via, portando chissà dove il corpo di David!

Dovevo fare qualcosa! Ma cosa? Dovevo introdurrai in quell’ospedale. Dovevo portare a termine la trasformazione su quel corpo! Cos’altro avrebbe potuto salvarlo? Ma non ci avrei trovato dentro James? Dov’è David? Mio Dio, aiutami. Ma perché dovresti?

Alla fine entrai in azione. Corsi in strada, accanto ai mortali che a malapena mi vedevano, trovai una cabina telefonica dalle pareti di vetro, ci scivolai dentro e chiusi la porta.

«Devo parlare con Londra», dissi al centralinista, dandogli le informazioni: il Talamasca, a carico del destinatario. Perché ci voleva tanto? Picchiai sul vetro col pugno per l’impazienza, con la cornetta premuta sull’orecchio. Alla fine, una delle gentili e pazienti voci del Talamasca accettò la chiamata.

«Mi ascolti», dissi e cominciai, dichiarando il mio nome completo. «Questo non avrà nessun senso per lei, ma è assai importante. Il corpo di David Talbot è stato appena portato d’urgenza in un ospedale della città di Miami. Non so nemmeno in quale ospedale! Ma il corpo è gravemente ferito: potrebbe morire. Lei però deve capire: David non si trova dentro quel corpo! Mi sta ascoltando? David è da qualche parte…»

M’interruppi.

Una forma oscura era comparsa di fronte a me dall’altra parte del vetro. E quando il mio sguardo cadde su di essa, del tutto pronto a ignorarla (che cosa m’importava che qualche mortale mi facesse fretta?), mi resi conto che quello che avevo di fronte era il mio vecchio corpo mortale, il mio alto e giovane corpo mortale dai capelli scuri, un corpo nel quale avevo vissuto a sufficienza per conoscerne ogni piccolo dettaglio, ogni debolezza e ogni forza. Stavo fissando lo stesso volto che avevo visto allo specchio solo due giorni prima! Stavo guardando quegli stessi familiari occhi castani!

Il corpo indossava la medesima giacca di tessuto indiano con cui lo avevo vestito io. Addirittura l’identica camicia bianca col collo alla coreana che avevo messo io. E una di quelle mani familiari era alzata in un gesto calmo, calmo come l’espressione sul volto, e mi stava ordinando senza possibilità di fraintendimento di riattaccare il telefono.

Rimisi a posto la cornetta.

Con un tranquillo movimento fluido, il corpo si portò di fronte alla cabina e aprì la porta. La mano destra mi afferrò il braccio, tirandomi fuori, sul marciapiede, nella lieve brezza.

«David», dissi. «Sai cosa ho fatto?»

«Credo di sì», rispose lui con una lieve alzata di spalle e la familiare voce inglese che usciva sicura dalla giovane bocca. «Ho visto l’ambulanza all’albergo.»

«David, è stato uno sbaglio, un orribile, orribile sbaglio!»

«Su, andiamocene da qui», disse. E quella era la voce che io ricordavo: consolante, autorevole e gentile.

«Ma, David, non capisci, il tuo corpo…»

«Vieni, puoi raccontarmi tutto.»

«Sta morendo, David.»

«Be’, non possiamo farci molto, allora, no?»

Col mio più grande stupore, mi circondò col braccio e, piegandosi in avanti nel suo tipico atteggiamento autorevole, mi esortò a seguirlo lungo il marciapiede fino all’angolo, dove alzò la mano per chiamare un taxi.

«Non so quale sia l’ospedale», confessai. Stavo ancora tremando con violenza. Non riuscivo a controllare il tremito delle mani. E la vista di lui, che mi guardava in modo così sereno, mi sconvolgeva più di quanto potessi sopportare. «Non andiamo all’ospedale», disse, come se stesse cercando di calmare un bambino isterico. Fece un cenno al taxi. «Sali, per favore.»

Mentre scivolava accanto a me sul sedile di pelle, diede all’autista l’indirizzo del Grand Bay Hotel in Coconut Grove.

27

Quando entrammo nell’ampia hall rivestita di marmo, mi trovavo ancora in uno stato di vero e proprio shock. Come in trance, guardai l’arredamento sontuoso, i grandi vasi di fiori e i turisti vestiti in modo elegante che mi passavano accanto. Con calma, l’uomo alto dai capelli castani che ero stato in precedenza mi guidò fino all’ascensore e in silenzio cominciammo a salire.

Benché il mio cuore sussultasse per ciò che era appena accaduto, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Sentivo ancora in bocca il sapore del sangue del corpo ferito!

La suite in cui entrammo era spaziosa e con un arredamento dai colori tenui. Si apriva sulla notte attraverso una grande parete di finestre scorrevoli che si affacciavano sul litorale della serena Biscayne Bay con le sue numerose torri illuminate.

Contento di poter rimanere finalmente solo con lui, cominciai a dirgli: «Tu sai che cosa stavo cercando di dirti», e mentre si sedeva di fronte a me al tavolo di legno rotondo, non smettevo di fissarlo. «Gli ho fatto male, David, gli ho fatto male in un accesso d’ira. L’ho… l’ho scagliato contro il muro.»

«Tu e il tuo pessimo carattere, Lestat», disse, ma ancora una volta il tono era quello che si usa per calmare un bambino troppo eccitato.

Un largo sorriso illuminò il volto ben modellato e dalla bocca ampia e serena: l’inconfondibile sorriso di David.

Non seppi replicare. Spostai lo sguardo dal suo volto radioso alle forti spalle appoggiate allo schienale, all’intera figura rilassata.

«Mi ha fatto credere di essere te!» esclamai, cercando di nuovo di concentrarmi. «Ha finto di essere te. Oh, mio Dio, ho riversato su di lui tutto il mio dolore, David. Se ne stava seduto là ad ascoltarmi, pronto a fregarmi. E poi mi ha chiesto il Dono Tenebroso, assicurandomi di aver cambiato idea. Mi ha indotto a salire in camera per darglielo, David! È stato orribile. Era ciò che avevo sempre desiderato, eppure sapevo che qualcosa non andava! C’era qualcosa di sinistro in lui. Ah, indizi ce n’erano, ma io non li ho visti! Che stupido sono stato.»

«Anima e corpo», disse il giovane dalla pelle liscia seduto di fronte a me. Si tolse la giacca di tela indiana, buttandola sulla sedia accanto, e tornò ad appoggiarsi allo schienale, incrociando le braccia sul petto. Il tessuto della camicia metteva in rilievo i suoi muscoli e il cotone bianco inamidato faceva apparire anche più intenso il colore della sua pelle, un bruno scuro quasi dorato.

«Sì, lo so», continuò con la sua adorabile e fluente parlata inglese. «È piuttosto sconvolgente. Ho avuto anch’io la stessa esperienza, pochi giorni fa, a New Orleans, quando l’unico amico che ho al mondo mi è comparso di fronte in questo corpo! Ti capisco benissimo. E mi rendo conto che il mio vecchio corpo probabilmente sta morendo, non è necessario che tu me lo chieda ancora. È solo che non so che cosa potremmo farci, noi due.»

«Be’, non possiamo avvicinarci, questo è certo! Se tu arrivassi a pochi metri da quel corpo, James potrebbe avvertire la tua presenza e concentrarsi abbastanza da uscirne.»

«Credi che James sia ancora in quel corpo?» chiese, alzando di nuovo le sopracciglia, proprio come faceva sempre David, con la testa un po’ inclinata in avanti e l’ombra di un sorriso sulle labbra.