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Mi faceva ridere sebbene non ne avessi davvero voglia. «Questa è la notte giusta», dissi. «No, andrò.» Provai un improvviso senso di grande leggerezza, poiché mi resi conto che ero davvero intenzionato a farlo. Non era solo una fantasia. Se lo fosse stata, non gli avrei mai parlato così. «Ho già immaginato il sistema:

m’innalzerò più in alto che posso prima che il sole superi l’orizzonte. Non ci sarà modo di trovare riparo. Là il deserto non perdona.»

Sarei morto nel fuoco. Non nel freddo che avevo provato sulla montagna quando i lupi mi avevano circondato. Nel calore, com’era morta Claudia.

«No, non farlo», disse lui. E com’era sincero, com’era convincente. Ma non funzionava.

«Vuoi il sangue?» chiesi. «Non richiede molto tempo e il dolore è davvero minimo. Sono sicuro poi che gli altri non ti faranno del male. Ti renderò così forte che passerebbero davvero un brutto quarto d’ora se ci provassero.»

Era come con Magnus, che mi aveva lasciato orfano con una sola eredità: l’avvertimento che Armand e la sua congrega sarebbero venuti da me, maledicendomi e cercando di mettere fine alla mia nuova vita. E Magnus sapeva che io avrei avuto la meglio.

«Lestat, credimi, non voglio il sangue. Voglio invece che ti fermi qui. Ascoltami, dammi solo poche notti, non chiedo di più. In nome della nostra amicizia, Lestat, rimani con me. Non puoi concedermi queste poche ore? Dopo, se vorrai perseguire il tuo scopo, non solleverò più obiezioni.»

«Perché?»

Sembrava colpito. «Lasciami parlare con tè, permettimi di farti cambiare idea.»

«Tu hai ucciso la tigre quand’eri molto giovane, vero? E accaduto in India.» Girai lo sguardo all’intorno, soffermandomi sui trofei. «Ho visto la tigre in sogno.»

Non rispose. Sembrava ansioso e perplesso.

«Ti ho fatto del male», proseguii. «Ti ho fatto affondare nei ricordi della tua giovinezza. Ti ho reso consapevole del tempo, mentre prima non lo eri.»

Qualcosa passò sul suo viso. Le mie parole l’avevano ferito. Tuttavia scosse la testa.

«David, prendi da me il sangue prima che io me ne vada!» sussurrai d’un tratto, con un tono di disperazione. «Ti rimane meno di un anno da vivere, posso sentirlo quando ti sono vicino! Sento la malattia del tuo cuore.»

«Tu non lo sai, amico mio», replicò lui, pazientemente. «Resta con me. Ti racconterò tutto della tigre, di quei giorni in India. In seguito sono andato a cacciare in Africa, e una volta sul Rio delle Amazzoni. Sapessi che avventure! Non ero ancora lo studioso ammuffito che sono ora…»

«Lo so.» Sorrisi. Non aveva mai parlato in quel modo con me, non mi aveva mai dato tanto. «E troppo tardi, David», dissi. Mi riapparve il sogno: vidi la sottile catena d’oro intorno al collo di David. Era la catena che la tigre voleva? Non aveva senso. La sensazione di pericolo comunque rimaneva.

Fissai la pelle della bestia: pura malvagità traspariva dalla sua espressione. «È stato divertente uccidere la tigre?» chiesi.

Ebbe un attimo di esitazione, poi si sforzò di rispondere: «Si trattava di una mangiatrice di uomini. Traeva piacere dal divorare i bambini. Sì, suppongo che sia stato divertente.»

Risi debolmente. «Allora abbiamo questo in comune, la tigre e io. E Claudia mi sta aspettando.»

«Non lo credi sul serio, vero?»

«No, penso che, se lo credessi, mi dispiacerebbe morire.» Vedevo Claudia in modo assai vivido: un minuscolo ritratto ovale di porcellana, i capelli dorati e gli occhi celesti, ma con qualcosa di feroce e di autentico nell’espressione, nonostante i colori leziosi e la forma arrotondata della cornice. Avevo mai posseduto quel medaglione? Poiché di quello si trattava, di un medaglione. Una sensazione di gelo mi avvolse. Ricordai la consistenza dei suoi capelli. Ancora una volta, fu come se lei fosse lì, vicino a me. Se mi fossi girato, l’avrei vista nell’oscurità alle mie spalle, con la mano appoggiata sullo schienale della poltrona. Mi girai, ma non c’era nessuno. Mi stavano per saltare i nervi. Dovevo uscire di lì.

«Lestat!» David richiamò la mia attenzione. Mi stava scrutando, nel disperato tentativo di trovare qualcosa da dire. Indicò la mia giacca. «Che cos’hai in tasca? Una nota che hai scritto? Vuoi lasciarmela? Permettimi di leggerla.»

«Già, questo strano racconto…» mormorai. «Tieni, tè lo lascio in eredità. Il suo posto dovrebbe essere in una biblioteca, magari infilato da qualche parte in uno degli scaffali.» Estrassi il pacchetto e gli diedi un’occhiata. «Sì, l’ho letto», commentai. «E piuttosto divertente.» Glielo lanciai. «Me l’ha dato un mortale, un pazzo, una povera anima sorpresa dalle tenebre che sapeva chi ero e che ha avuto abbastanza coraggio da gettarmelo ai piedi.»

«Spiegami perché lo porti con tè», chiese David mentre dispiegava le pagine. «Mio Dio, Lovecraft…» aggiunse poi, scuotendo il capo.

«Tè l’ho appena detto», ribattei. «Non serve a niente, David, non mi lascerò convincere con le parole a cambiare idea. Vado. Inoltre, questa storia non significa nulla. Quel povero pazzo…»

Aveva occhi così strani e scintillanti. E cosa c’era stato di così sbagliato nel modo in cui si era lanciato verso di me sulla sabbia e nella sua goffa ritirata, come se fosse stato in preda al panico? Tutto ciò era ridicolo. Non m’interessava e lo sapevo. Avevo ben chiaro che cosa intendevo fare.

«Lestat, fermati qui!» ribadì David. «Mi hai fatto una promessa, l’ultima volta che ci siamo incontrati: mi avresti lasciato dire tutto quello che desideravo. Me lo hai scritto, Lestat, ricordi? Non puoi rimangiarti la parola.»

«Purtroppo devo farlo, David. E tu mi devi perdonare perché io ora me ne vado. Forse non esistono l’inferno o il paradiso, e ti rivedrò sull’altra riva.»

«Che cosa succede invece se esistono entrambi? Dimmelo.»

«Stai leggendo troppo la Bibbia… Leggi piuttosto il racconto di Lovecraft.» Ridacchiai di nuovo, indicando le pagine che lui aveva in mano: «È meglio, per la tua serenità mentale. E sta’ lontano dal Faust, per amor del cielo. Davvero pensi che alla fine gli angeli verranno e ci porteranno via? Forse non me, ma tè?»

«Non andare.» La sua voce così dolce e implorante mi tolse il respiro.

Ma stavo già andando.

Lo udii appena dietro di me mentre mi chiamava a gran voce:

«Lestat, io ho bisogno di tè. Sei l’unico amico che ho!»

Come suonavano tragiche quelle parole! Volevo dirgli che mi dispiaceva, che mi dispiaceva per tutto. Ma ormai era troppo tardi, e credo che lui lo sapesse.

M’innalzai veloce nella fredda oscurità, facendomi strada attraverso la neve che scendeva. La vita mi sembrava insopportabile, negli orrori come nelle meraviglie che riservava. Vista da lassù, la casa ormai minuscola dava un’impressione di calore, mentre riversava le sue luci sul suolo candido di neve e, dal camino, si alzavano sottili spire di fumo blu.

Ripensai a David che camminava per Amsterdam, ma poi tornai ai visi di Rembrandt. E vidi di nuovo il volto di David nel fuoco della biblioteca: sembrava uno degli uomini dipinti da Rembrandt. Era da quando lo conoscevo che conservava quell’aspetto. A che cosa somigliamo invece noi, congelati per sempre nella forma che avevamo allorché il Sangue Tenebroso era entrato nelle nostre vene? Claudia era stata per decenni quella bambina di porcellana dipinta, mentre io ero come una statua di Michelangelo, bianca come il marmo. E altrettanto fredda.

Sapevo che avrei mantenuto la mia parola.

C’era infatti una terribile bugia in tutto ciò. Non credevo affatto che il sole potesse uccidermi, anche se di certo stavo per offrirgli una buona possibilità di farlo.