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Deserto dei Gobi.

Eoni or sono, in quella che gli uomini hanno chiamato era dei dinosauri, in questa strana parte del globo morirono migliaia di grandi lucertole. Nessuno sa perché fossero venute qui ne perché si estinsero. Era un mondo di alberi tropicali o di paludi fumanti? Lo ignoriamo. Tutto ciò che ci rimane sono il deserto e milioni di milioni di fossili, che raccontano la storia frammentaria di rettili giganti che di certo fecero tremare la terra a ogni loro passo.

Il deserto dei Gobi è perciò un immenso camposanto e un luogo adatto per guardare il sole in faccia. A lungo, prima dell’alba, rimasi disteso nella sabbia, raccogliendo i miei ultimi pensieri.

Al limite estremo dell’atmosfera, dentro il levar del sole, per così dire, la partita stava per avere inizio. Quindi, una volta persa conoscenza, sarei precipitato nel calore terribile, e il mio corpo sarebbe andato in mille pezzi, cadendo rovinosamente sul suolo desertico. In tal modo, il mio corpo non sarebbe potuto affondare sotto la superficie, cosa che invece sarebbe successa, per via di quella spontanea e perversa volontà che anima appunto il mio corpo, se fossi stato integro e in una zona dal terreno cedevole. Senza contare che, se l’esplosione di luce fosse stata abbastanza forte da bruciarmi, essendo io nudo e trovandomi così in alto rispetto alla terra, forse sarei morto prima ancora che i miei resti ricadessero sul duro letto di sabbia.

Insomma, come si dice, in quel momento sembrava una buona idea. Quasi nulla avrebbe potuto farmi desistere. Tuttavia mi chiedevo se gli altri immortali fossero al corrente del mio proposito e se la cosa destasse in loro qualche preoccupazione. Di certo non mandai loro messaggi di addio, stando ben attento a non diffondere immagini sulle mie intenzioni.

Infine il grande calore dell’alba cominciò a farsi strada attraverso il deserto. Mi alzai sulle ginocchia, mi strappai via gli abiti e cominciai l’ascesa, mentre già i miei occhi bruciavano, colpiti da quel pallido accenno di luce.

Mi spinsi sempre più in alto, andando ben oltre il punto in cui il mio corpo tendeva a fermarsi e a fluttuare naturalmente. Alla fine, a causa dell’aria molto rarefatta, non potevo più respirare, e fu con un grande sforzo che riuscii a mantenermi a quell’altezza.

Poi venne la luce. Così smisurata, cosi calda, così accecante che il mio campo visivo sembrava ricolmo non solo d’immagini, ma addirittura di un forte rumore scrosciante. Vidi un fuoco giallo e arancio ricoprire ogni cosa. Rimasi a fissarlo, sebbene fosse come sentirmi versare acqua bollente negli occhi. Credo che aprii la bocca come per inghiottirlo, quel fuoco divino! E d’un tratto, il sole fu mio. Lo vedevo, stavo per raggiungerlo, mentre la luce colava su di me come piombo fuso, paralizzandomi e torturandomi oltre ogni sopportazione. Le mie stesse grida mi riempivano le orecchie, ma non volevo distogliere lo sguardo, non volevo ancora cadere!

Così io ti sfido, cielo! pensai e, mentre roteavo, nuotando in quell’immensità, improvvisamente non ci furono più parole ne pensieri. Poi il freddo e l’oscurità — dovuti alla progressiva perdita di coscienza — cominciarono ad avvolgermi, e mi resi conto che avevo cominciato a cadere.

Nel sibilo dell’aria che stavo fendendo mi parve di udire il richiamo di altre voci, finché, in quell’orribile rombo confuso, non distinsi con chiarezza una voce infantile.

Poi più nulla…

Stavo sognando?

Ci trovavamo in un luogo angusto e opprimente, un ospedale in cui ristagnava un odore di malattia e di morte. Io indicavo un letto e la bambina che giaceva lì, pallida e in fin di vita.

Una risata tagliente risuonava all’intorno. Sentii l’odore di una lampada a olio nel momento in cui lo stoppino si spegneva.

«Lestat», disse la bimba. Com’era meravigliosa la sua vocina!

Tentai di descrivere il castello di mio padre, la neve che cadeva e i miei cani in attesa. Era là che io volevo andare. All’improvviso potei udirlo, il cupo latrato dei mastini che echeggiava sui pendii ricoperti di neve, e mi parve di scorgere anche le torri del castello.

Ma lei disse: «Non ancora».

Era di nuovo notte quando mi svegliai, ritrovandomi sdraiato sul suolo desertico. Le dune agitate dal vento avevano sparso un velo di sabbia sulle mie membra. Sentivo dolore fino alla radice dei capelli. Un dolore così intenso da non riuscire a muovermi.

Giacqui in quella posizione per ore. Di tanto in tanto emettevo un debole gemito che non contribuiva tuttavia in nessun modo ad alleviare la sofferenza che provavo. Se cercavo di muovermi, anche solo un poco, sentivo la sabbia sotto di me e mi sembrava che minuscoli granelli di vetro mi ferissero la schiena, i polpacci e i talloni.

Pensai a tutti coloro ai quali avrei potuto chiedere aiuto, ma non chiamai nessuno. Non mi resi subito conto che, se fossi rimasto lì, il sole, com’era naturale, sarebbe tornato, mi avrebbe preso nella sua morsa un’altra volta e un’altra volta io sarei stato bruciato. Ma potevo ancora resistere alla morte.

Dovevo rimanere lì. Che razza di codardo avrebbe cercato un riparo, a quel punto?

Dovevo soltanto guardare le mie mani alla luce delle stelle, così da verificare di non trovarmi in punto di morte. Ero ustionato, quello sì, e la mia pelle bruna e raggrinzita urlava di dolore. Ma la morte era ancora lontana.

A un certo punto mi girai, tentando di appoggiare il viso contro la sabbia, ma quella posizione non si rivelò più confortevole. Rimasi quindi a fissare le stelle.

Poi avvertii che il sole stava arrivando. Non appena la grande luce arancio cominciò a riversarsi sulla terra, presi a lacrimare. Il dolore mi attanagliò la schiena. Poi iniziai a pensare che la mia testa stesse bruciando, che sarebbe esplosa e che il fuoco stesse divorando i miei occhi. Quando scese l’oblio dell’oscurità ero fuori di me, pazzo furioso.

La sera seguente, al risveglio, avevo la bocca piena di sabbia:

evidentemente, nella mia pazzia, mi ero sepolto vivo, cercando nella sabbia un rifugio alla mia agonia.

Rimasi così per ore e con un unico pensiero: quella sofferenza era più di quanto qualsiasi creatura potesse sopportare.

Infine, con grande sforzo, riemersi in superficie, uggiolando come un cane e, a fatica, mi alzai. Ogni gesto riacutizzava e intensificava il dolore, ma decisi d’innalzarmi nell’aria e di addentrarmi nella notte in un lento viaggio verso oriente.

I miei poteri non erano diminuiti. Solo la superficie del mio corpo era stata profondamente danneggiata.

Il vento era assai più dolce della sabbia, pur infliggendomi la sua parte di tormento: con le sue dita mi sfiorava la pelle ustionata, mi strappava le radici bruciate dei capelli, mi tormentava le palpebre riarse e sfregava contro le ginocchia doloranti.

Viaggiai senza fretta per ore, deciso a raggiungere la casa di David ancora una volta. Intanto, per pochi istanti, mi compiacevo del più meraviglioso dei sollievi, scendendo in mezzo alla neve fredda e umida.

In Inghilterra era quasi mattina.

Ogni passo era un tormento atroce. Anche quella volta entrai dalla porta sul retro. Quasi alla cieca, trovai la biblioteca. Ignorando il dolore, mi lasciai cadere sulle ginocchia e crollai sulla pelle di tigre.

Appoggiai la testa vicino al muso dell’animale e accostai la guancia alle sue mascelle aperte. Aveva una pelliccia così perfetta, cosi compatta! Allungai le braccia sulle sue zampe e avvertii, sotto i polsi, gli artigli duri e levigati. Fitte di dolore m’investivano a ondate successive, mentre percepivo la consistenza serica della pelliccia e il fresco della stanza immersa nell’oscurità. Tra deboli riflessi e mute visioni, intravidi allora le foreste di mangrovie dell’India, scrutai volti scuri, udii voci lontane. Una volta, per un lungo istante, mi apparve molto chiaramente David da giovane, come l’avevo visto nel sogno.

Sembrava un tale miracolo, quel giovane pieno di vita, dalla fibra forte e dal sangue pulsante. E com’erano straordinari i suoi occhi, il suo cuore e le dita delle lunghe mani snelle.