Mi rividi camminare per Parigi al tempo in cui ero vivo. Indossavo il mantello di velluto rosso, foderato con la pelliccia dei lupi che avevo ucciso nell’Alvernia natia, e mai avrei immaginato che esistessero creature in agguato nell’oscurità, esseri che potevano vederti e innamorarsi di tè, solo perché eri giovane, e prendersi la tua vita, soltanto perché ti amavano e perché tu avevi ucciso un branco di lupi…
David, il cacciatore! In tenuta kaki con quello splendido fucile.
Lentamente, mi resi conto che il dolore si era già attenuato. Caro, vecchio Lestat, il dio che guarisce con rapidità soprannaturale! Il tormento era come un’incandescenza che si diffondeva in tutto il corpo: immaginai di spandere una calda luminosità per tutta la stanza.
Captai nell’aria il profumo di mortale. Un domestico era entrato nella stanza e ne era uscito velocemente. Povero vecchio! Nel dormiveglia mi veniva da ridere, pensando a ciò che aveva visto: un uomo nudo, dalla pelle scura, con una massa arruffata di capelli biondi, che giaceva sulla tigre di David nella stanza buia.
D’un tratto, catturai il profumo di David e udii di nuovo il suono basso e familiare provocato dal fluire del sangue nelle vene mortali. Sangue, ero così assetato di sangue… Lo reclamava la mia pelle ustionata, lo invocavano i miei occhi riarsi.
Sopra di me era stata stesa una morbida coperta di flanella, fresca e molto leggera. Seguì poi una serie di piccoli rumori: David stava chiudendo le pesanti tende di velluto delle finestre, cosa che non si era preso la briga di fare nel corso di tutto l’inverno, armeggiando coi panneggi in modo tale che la luce non filtrasse.
«Lestat», bisbigliò. «Lascia che ti conduca nell’interrato, dove sarai al sicuro.»
«Non importa, David. Posso rimanere in questa stanza?»
«Ma certo», rispose lui con grande premura.
«Grazie, David.» Ripresi a dormire e vidi la neve penetrare, sotto la spinta del vento, attraverso la finestra della mia stanza nel castello, anche se ormai tutto era mutato. Mi apparve ancora una volta il piccolo letto dell’ospedale e la bambina che vi giaceva. Grazie a Dio, quell’infermiera non era più lì, ma era andata a fermare un pianto insistente. Un suono terribile, lo odiavo. Volevo essere… Indovinate dove? A casa, in Francia, nel pieno dell’inverno, naturalmente.
La lampada a olio era stata accesa.
«Tè l’avevo detto che non era il momento.» II suo vestito era così candido, con quei minuscoli bottoni di perle. E che bei nastro di deliziose roselline le cingeva il capo!
«Ma perché?» chiesi.
«Cos’hai detto?» chiese David.
«Stavo parlando con Claudia», spiegai. Lei era seduta sulla poltrona dall’imbottitura ricamata a punto croce, con le gambe che sporgevano e i piccoli piedi puntati al soffitto. Erano ciabattine di raso, quelle? L’afferrai per una caviglia e la baciai e, nel rialzare lo sguardo, vidi che aveva buttato indietro la testa, ridendo. Una deliziosa risata a piena gola.
«Ci sono altri, qui fuori», disse David.
Aprii gli occhi, sebbene ciò mi procurasse dolore, per guardare le forme incerte della stanza. Il sole stava per sorgere. Sentii gli artigli della tigre sotto le mie dita. Che animale perfetto! In piedi accanto alla finestra, David stava sbirciando attraverso una fessura tra due pannelli del tendaggio.
«Qui fuori…» ripeté. «Sono venuti per vedere se stai bene.»
Ma guarda un po’. «Chi sono?» Non potevo udirli, ne volevo farlo. Si trattava di Marius? Certo non dei più anziani. Perché si preoccuperebbero di una faccenda del genere?
«Non lo so», rispose David. «Però sono qui.»
«Sai come vanno le cose», sussurrai. «Se li ignori, se ne andranno.» E comunque è quasi l’alba: non possono rimanere. Di certo non ti faranno del male, David.
«Lo so.»
«Non leggere nella mia mente se non vuoi che io legga nella tua», dissi.
«Non essere astioso. Nessuno verrà in questa stanza o ti disturberà.»
«Già, posso essere un pericolo anche a riposo…» Volevo dire di più, metterlo ulteriormente in guardia, ma mi resi conto che David era l’unico mortale che non richiedesse quel genere di avvertimenti. I mèmbri del Talamasca, gli studiosi del paranormale: lui sapeva.
«Dormi ora», mormorò.
Mi venne da ridere. Che altro posso fare quando il sole sorge, o se risplende in pieno sul mio viso? Ma lui era troppo risoluto e rassicurante.
A pensarci bene, ai vecchi tempi, io avevo sempre una bara, e qualche volta mi capitava di levigarla finché il legno non acquisiva un eccezionale splendore; lucidavo altresì il piccolo crocifisso posto sulla sua sommità, sorridendo tra me per la cura con cui mi occupavo del piccolo corpo contorto del Cristo trucidato, il Figlio di Dio. Avevo amato il rivestimento di raso della cassa, la sua forma e il gesto crepuscolare del risorgere dalla morte. Ma ormai non più…
Il sole infine era sorto, il sole del freddo inverno inglese. Potevo avvertirlo distintamente e d’un tratto ne fui spaventato. Percepivo la luce che scendeva sulla terra e arrivava a colpire le finestre, ma da questa parte delle tende di velluto persisteva l’oscurità.
Vidi la fiammella alzarsi nella lampada a olio. Mi atterrì, ma soltanto perché era una fiamma e io mi trovavo in uno stato d’indicibile sofferenza. La chiave d’oro nelle sue piccole dita arrotondate e quell’anello, quell’anello che io le avevo dato insieme con la piccola parure di perle e diamanti. E il medaglione? Avrei dovuto chiederle del medaglione? Claudia, c’è mai stato un medaglione d’oro…?
Intanto la fiamma era sempre più alta. E c’era ancora quell’odore, e le sue manine con le fossette. Si poteva cogliere il profumo dell’olio nell’appartamento di rue Royale. E poi ancora quella vecchia carta da parati, quei graziosi mobili fatti a mano e Louis che scriveva al suo scrittoio, tra l’odore penetrante dell’inchiostro nero e il suono lento e graffiante della penna d’oca…
Mi stava sfiorando la guancia con la sua manina, così deliziosa e fresca. Ed eccolo, quel vago brivido che mi attraversava ogni volta che uno degli altri mi toccava: è la nostra pelle.
«Perché qualcuno dovrebbe tenere alla mia vita?» chiesi, o almeno cominciai a chiedere… Perché poi, semplicemente, mi addormentai.
4
Era il tramonto. Il dolore che provavo era ancora molto intenso e m’impediva qualsiasi movimento. Le uniche varianti alla sofferenza erano un fastidioso senso di pizzicore e una forte tensione alla pelle delle gambe e del petto. Non riuscivano a smuovermi né la sete di sangue, che imperversava con ferocia, né l’odore del sangue dei domestici nella casa. Sapevo che David si trovava là, ma non gli rivolsi la parola; pensavo che, se avessi tentato di parlare, mi sarei messo a piangere per il dolore.
Durante il sonno sognai, anche se poi, al risveglio, non fui in grado di ricordare con precisione che cosa. Dovevo aver visto di nuovo la lampada a olio, con la sua luce che ancora mi terrorizzava. Come mi terrorizzava la voce di lei.
Una volta mi svegliai e mi misi a parlarle nell’oscurità. «Perché, fra tanta gente, proprio tu? Perché proprio tu nei miei sogni? E dov’è finito il coltello insanguinato?»
Accolsi con gratitudine l’arrivo dell’alba. Più di una volta avevo dovuto tapparmi la bocca a forza per non far esplodere in un grido il mio tormento.
La seconda notte, quando mi svegliai, la sofferenza sembrava assai meno intensa. Il mio corpo era tutto una piaga, qualcosa di molto vicino a ciò che i mortali chiamano carne viva. Ma lo strazio era passato. Io rimanevo ancora disteso sulla tigre, mentre la stanza mi trasmetteva una lieve e non molto piacevole sensazione di freddo.