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«Davvero conosci la direttiva a memoria?»

«L’ho scritta io stesso», disse accennando un sorriso. «E l’ho distribuita a molti altri membri nel corso degli anni.»

«Loro sanno che adesso sono qui?»

«No, certo che no. Ho smesso di riferire dei nostri incontri molto tempo fa.» Rimase per un attimo assorto, poi chiese: «Tu stai cercando Dio?»

«Certo che no», risposi. «Non riesco a immaginare un maggior spreco di tempo, anche se si hanno secoli a disposizione. Ho chiuso con tutte le ricerche di questo tipo. Ormai mi rivolgo al mondo intorno a me in cerca di verità, di realtà ben radicate in fatti fisici ed estetici, che posso comprendere. M’interesso della tua visione perché sei tu ad averla avuta e tu ad avermela raccontata, e io ti voglio bene. Ma questo è tutto.»

Si lasciò andare all’indietro sulla poltrona, di nuovo con lo sguardo perso nell’oscurità della stanza.

«Non avrà importanza, David», aggiunsi. «Quando arriverà il momento, morirai. E forse anch’io morirò.»

Manteneva il suo sorriso cordiale, come se non potesse interpretare quella frase se non come una battuta.

Ci fu un lungo silenzio, durante il quale si versò un altro po’ di scotch bevendolo poi molto più lentamente di quanto non avesse fatto prima. Non era ancora ubriaco e notai che riusciva a mantenere un assoluto controllo di sé. Quand’ero mortale, bevevo sempre per ubriacarmi. Ma allora ero molto giovane e molto povero, castello o no, e la maggior parte di ciò che bevevo era di cattiva qualità.

«Tu sei alla ricerca di Dio», disse con un piccolo cenno del capo.

«Neanche per sogno. Sei troppo pieno di te e della tua autorità. Sai benissimo che non sono quello che vedi.»

«Già, hai ragione. Bisogna che qualcuno me lo ricordi. Tuttavia non potresti mai tollerare il male. Se nei tuoi libri sei stato sincero almeno la metà delle volte, allora è evidente che il male ti ha disgustato fin dall’inizio. Hai fatto cose incredibili pur di scoprire che cosa Dio voleva da te, per rispettare la sua volontà.» «Ti sei rimbambito. Devi fare testamento.» «Oooh, che crudeltà!» esclamò col suo vivace sorriso. Stavo per dirgli qualcos’altro, ma venni distratto. Qualcosa, da qualche parte nella mia coscienza, aveva attirato la mia attenzione. Suoni. Un’auto stava passando molto lentamente lungo la stretta strada che attraversava il villaggio lontano, in mezzo alla neve fittissima.

Scrutai lo spazio all’intorno con gli occhi della mente, ma non captai nulla, solo la neve che cadeva e la macchina che procedeva. Povero mortale, trovarsi a guidare per la campagna a quell’ora! Erano le quattro.

«È molto tardi», dissi. «Ora devo andarmene. Non voglio passare qui un’altra notte, nonostante la tua estrema cordialità. Non che non voglia che qualcuno lo sappia, però preferisco…» «Comprendo. Quando ti vedrò di nuovo?» «Forse prima di quanto pensi», risposi. «Ma dimmi un’ultima cosa, David: l’altra notte, quando me ne sono andato, deciso a bruciare me stesso nel deserto dei Gobi, perché mi hai detto che io ero il tuo unico amico?» «Perché lo sei.» II silenzio calò tra noi.

«Anche tu, David, sei l’unico amico che ho», mormorai infine. «Dove hai intenzione di andare?»

«Non so. Forse torno a Londra. Ti avvertirò quando attraverserò di nuovo l’Atlantico, va bene?»

«Te ne sarei molto grato. E non pensare che non voglia vederti. Non mi abbandonare mai più.»

«Se pensassi che fosse un bene per te, come sono convinto che lo siano il tuo congedo dall’ordine e i nuovi viaggi che hai in programma…»

«Oh, ma lo è. Non faccio più parte del Talamasca. Inoltre non sono più sicuro di aver fiducia in esso o di credere nei suoi scopi.»

Volevo dire di più, spiegargli quanto lo amavo, che non avrei mai dimenticato come mi aveva protetto quand’ero andato a cercare riparo sotto il suo tetto… Che avrei fatto qualunque cosa mi chiedesse: qualunque cosa.

Ma non sembrava che tutto ciò avesse significato. Avrebbe creduto alle mie parole? Quale valore avrebbe attribuito loro? Ero ancora convinto che non fosse un bene per lui vedermi. E non gli era rimasto molto da vivere.

«Lo so bene», disse, regalandomi ancora una volta il suo bel sorriso.

«David, conservi qui una copia della relazione che hai fatto delle tue avventure in Brasile? Potrei leggerla?»

Si alzò e andò alla libreria con le ante in vetro, quella che si trovava proprio accanto alla sua scrivania. La esaminò per qualche minuto, poi prese da uno scaffale due grandi cartelle in cuoio. «Questa è la mia vita in Brasile, come l’ho scritta dopo, nella giungla, sul tavolo da campo, servendomi di una piccola e sgangherata macchina per scrivere portatile, e prima di tornare a casa, in Inghilterra. Ho dato la caccia al giaguaro: dovevo farlo. Ma la caccia non è stata nulla, se paragonata alle mie esperienze a Rio. Vedi, quella è stata la svolta. Credo che alla base del mio scrivere ci fosse un disperato tentativo di sentirmi di nuovo inglese, di distanziarmi dalla gente del Candomblé e dalla vita che avevo vissuto con loro. La mia relazione per il Talamasca si è basata sul materiale che trovi qui.»

Lo accettai con riconoscenza.

«E questo», disse, porgendomi l’altra cartella, «è un breve riassunto dei miei giorni in India e in Africa.»

«Mi piacerebbe leggere anche quello.»

«Si tratta soprattutto di storie di caccia. Ero giovane quando l’ho scritto: è tutto azione e grandi fucili! Risale a prima della guerra.»

Presi anche la seconda cartella e, con signorile compostezza, mi alzai.

«Ho parlato io per tutta la notte», disse lui improvvisamente. «È stato scortese da parte mia. Forse avevi qualcosa da dirmi.»

«No, affatto. Era proprio ciò che volevo.» Gli porsi la mano e lui la prese. Che stupefacente sensazione sentire il tocco della sua pelle contro la mia carne bruciata!

«Lestat… Questo piccolo racconto, l’opera di Lovecraft… Lo rivuoi indietro o lo devo conservare io per te?»

«Ah, quello… Una storia piuttosto interessante… Il modo in cui ne sono entrato in possesso, intendo.»

Presi il racconto che mi stava porgendo e me lo ficcai nella giacca. Forse l’avrei letto di nuovo. La mia curiosità riaffiorò e, insieme con essa, emerse una sorta di terribile sospetto. Venezia, Hong Kong, Miami: com’era riuscito quello strano mortale a individuarmi in tutti e tre i luoghi, e a fare in modo che io lo riconoscessi?

«Me ne vuoi parlare?» chiese David con gentilezza.

«Quando avremo più tempo lo farò.» Soprattutto se mi capiterà di rivedere quell’individuo, pensai. Ma come aveva fatto?

Uscii in modo civile, facendo deliberatamente appena un po’ di rumore quando chiusi la porta laterale della casa.

Quando raggiunsi Londra era quasi l’alba. Per la prima volta da parecchie notti, ero davvero soddisfatto dei miei immensi poteri e del grande senso di sicurezza che ne derivava. Non avevo bisogno di bare, né di nascondigli oscuri: mi bastava una stanza isolata dai raggi del sole. Un albergo elegante con pesanti tende mi avrebbe garantito sia la tranquillità sia il comfort.

Mi rimaneva anche un po’ di tempo per mettermi comodo sotto la calda luce di una lampada e cominciare l’avventura brasiliana di David, una lettura che non vedevo l’ora di gustare.

A causa della mia sventatezza, non avevo praticamente denaro con me. Feci allora ricorso ai miei notevoli poteri di persuasione con gli impiegati del venerando Claridge’s, che accettarono il numero del mio conto, sebbene non avessi con me una carta per verificarlo. Fu poi sufficiente una mia firma come Sebastian Melmoth, uno dei miei pseudonimi preferiti, perché mi venisse assegnata una deliziosa suite all’ultimo piano, stipata di eleganti arredi stile Regina Anna e fornita di ogni comodità possibile e desiderabile.

Appesi fuori della porta il piccolo avviso con l’invito a non disturbare e lasciai detto alla reception che non dovevo essere chiamato fin dopo il tramonto, quindi chiusi a chiave tutte le porte.