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A dire il vero, alcuni teatri di quel periodo sopravvivevano ancora. E infatti eccoli lì, imponenti e ricchi di decorazioni. Erano ormai circondati da moderne strutture, eppure continuavano ad attirare gli spettatori.

Mentre mi aggiravo sugli sfavillanti Champs-Élysées — affollati di auto piccole e veloci oltre che di migliaia di pedoni —, constatai che Parigi non era una città-museo, come Venezia. Parigi era viva in quel momento come lo era stata negli ultimi due secoli. Era una capitale. Un luogo d’innovazioni e di audaci cambiamenti.

Provai meraviglia di fronte allo splendore essenziale del Centre Pompidou, che si stagliava orgoglioso sullo sfondo dei venerabili archi rampanti di Notre-Dame. Com’ero felice di essere venuto!

Ma avevo un compito da svolgere, o no?

Non avevo comunicato ad anima viva, mortale o immortale che fosse, dove mi trovavo. Sebbene fosse molto sconveniente, non chiamai neppure il mio avvocato di Parigi, ma feci in modo di procurarmi una grande quantità di denaro ricorrendo al mio vecchio e familiare sistema: prelevandolo cioè a un paio di disgustosi criminali ben forniti e da me sorpresi nell’oscurità di un vicolo.

Mi diressi quindi alla volta del soffice tappeto di neve che ricopriva piace Venderne, dove si raccoglievano gli stessi palazzi dei miei bei tempi andati, e, sotto lo pseudonimo di barone van Kindergarten, mi sistemai al sicuro in una sontuosa suite del Ritz.

Lì, per due notti, evitai la città, avviluppato in un lusso e in uno stile davvero degni della Versailles di Maria Antonietta. Mi salirono le lacrime agli occhi quando osservai l’arredamento sovraccarico e tipicamente parigino che mi circondava, le magnifiche sedie Luigi XVI, l’incantevole pannellatura a rilievo delle pareti. Ah, Parigi… In quale altro luogo il legno può essere dipinto d’oro senza perdere la sua bellezza?

Abbandonato su una chatse-longue stile Direttorio preziosamente rivestita, mi misi subito a leggere i manoscritti di David, interrompendomi solo di tanto in tanto per gironzolare nel silenzio del salottino e della camera da letto, o per aprire una finestra — così autenticamente francese, col suo pomello ovale riccamente ornato — e affacciarmi sul giardino retrostante l’albergo, solenne e superbo nella sua tranquillità.

Lo scritto di David rapì la mia attenzione e di lì a poco mi sentii vicino a lui come non mi era mai successo prima.

Risultava evidente che David, nella sua giovinezza, era stato in tutto e per tutto un uomo d’azione, attratto dal regno dei libri solo se essi parlavano di avventura. Il suo più grande diletto l’aveva sempre trovato nella caccia. Il resoconto della sua prima spedizione risaliva all’epoca in cui lui aveva dieci anni. Le sue descrizioni della caccia alle grandi tigri del Bengala erano pervase dall’eccitazione scaturita dall’inseguimento e dai rischi che aveva dovuto affrontare. Avvicinandosi sempre molto alla bestia prima di fare fuoco, ne aveva uccisa più d’una.

Aveva amato tanto l’Africa quanto l’India. Era andato a caccia di elefanti in un periodo in cui nessuno avrebbe mai immaginato che quegli animali fossero in pericolo di estinzione; era stato caricato innumerevoli volte dai grandi bufali prima di riuscire ad abbatterli; era partito alla ricerca di rischi simili allorché si era mosso alla volta dei leoni nel Serengeti.

Si era dato davvero da fare, arrampicandosi per ripidi sentieri di montagna, nuotando in fiumi pericolosi, sfiorando la pelle coriacea del coccodrillo e vincendo pure la sua inveterata repulsione per i serpenti. Aveva dormito all’aperto, scrivendo nel suo diario alla luce delle lanterne a olio o delle candele, mangiando solo la carne degli animali che uccideva, anche quand’era molto scarsa, e scuoiando senza nessun aiuto le sue prede.

Non mostrava una grande capacità descrittiva: soprattutto nella prima giovinezza, non aveva davvero pazienza con la parola scritta. Si poteva tuttavia avvertire il calore dei tropici in quelle memorie, come si poteva udire il ronzio delle zanzare. Sembrava inconcepibile che un uomo così avesse goduto dei comfort invernali di Villa Talbot, o del lusso delle case madri dell’ordine, comfort e lussi ai quali ormai si abbandonava senza remore. Eppure erano molti, i distinti gentiluomini inglesi che avevano condiviso tali scelte e fatto ciò che ritenevano appropriato alla propria posizione e all’età.

Quanto all’avventura in Brasile, avrebbe potuto benissimo essere stata scritta da un uomo diverso. Aveva lo stesso lessico misurato e preciso e rivelava la stessa passione per il rischio, naturalmente, ma i suoi risvolti soprannaturali mettevano in luce un individuo molto più ingegnoso e cerebrale. In realtà, anche il lessico cambiava, incorporando molte, oscure parole portoghesi e africane utilizzate per esprimere concetti e sensazioni fisiche altrimenti quasi impossibili da spiegare.

Ma la sostanza era che le notevoli capacità telepatiche di David si erano sviluppate attraverso una serie di terrificanti incontri con le sacerdotesse brasiliane, oltre che con vari spiriti. Il suo corpo era divenuto il mero strumento di quel potere psichico, spianando in tal modo la strada agli studiosi che sarebbero emersi negli anni seguenti.

Le sue memorie brasiliane evidenziavano un forte intento descrittivo. Raccontavano delle piccole stanze in legno delle campagne dove i credenti del Candomblé si radunavano, accendendo candele davanti alle statue in gesso di santi cattolici e di divinità dello stesso Candomblé. E poi ancora dei tamburi e delle danze, e degli immancabili stati di trance in cui cadevano i vari membri del gruppo che erano divenuti ospiti inconsapevoli degli spiriti, assumendo gli attributi di una certa divinità grazie ad antichi sortilegi dimenticati.

L’attenzione di David, però, si concentrava ormai interamente sull’invisibile, sulla percezione dell’energia interna e sulla battaglia con le forze esterne. Il giovane che aveva cercato la verità unicamente nella realtà fisica, nell’usta dell’animale, nella pista nella giungla, nel colpo del fucile, nella preda che crollava a terra, ormai non esisteva più.

Quando David aveva lasciato Rio de Janeiro, era una persona diversa. Il suo racconto era stato sicuramente rivisto e rifinito — e forse addirittura ridotto —, in tempi più recenti, però includeva senza dubbio una buona parte del diario che lui aveva scritto in quel periodo. E non c’era neppure dubbio che lui si fosse trovato al limite della follia nel senso più comune del termine: ovunque posasse lo sguardo non vedeva più strade, edifici e persone, ma spiriti, divinità, poteri invisibili emanati da altri, e vari livelli di resistenza spirituale da parte degli umani, a livello sia conscio sia inconscio. In realtà, se lui non fosse partito per la giungla amazzonica, se non si fosse sforzato di ridiventare il temerario cacciatore inglese, avrebbe potuto smarrire per sempre il contatto col mondo reale.

Macilento, bruciato dal sole, in maniche di camicia e pantaloni sudici, per mesi si era aggirato per Rio in cerca di esperienze spirituali ancora più sconvolgenti, evitando deliberatamente gli altri inglesi, per quanto loro lo cercassero. Infine aveva indossato di nuovo la sua tenuta kaki e, dopo aver ripreso i suoi grandi fucili e fatto scorta delle migliori vettovaglie da campo, era partito per tornare padrone di sé. E aveva abbattuto un giaguaro, sventrandolo e scuoiandolo lui stesso, servendosi soltanto del proprio coltello.

Anima e corpo!

In realtà non era così incredibile che in tutti quegli anni non fosse più tornato a Rio de Janeiro: se lo avesse fatto, forse non sarebbe più potuto ripartire.

Ma la vita di esperto del Candomblé non era abbastanza per lui. Gli eroi cercano l’avventura, ma l’avventura di per sé non riesce ad appagarli.

Venire a conoscenza di tali esperienze rafforzò il mio amore per lui. Tuttavia mi rattristò il pensiero che, da allora, David aveva passato la vita nel Talamasca… Degna di lui o no, non sembrava davvero quella la cosa migliore per renderlo felice, benché lui insistesse a dire che era così. Sembrava piuttosto la cosa più sbagliata.