Approfondire la conoscenza di David non fece altro che accrescere il mio desiderio per lui. Riflettei di nuovo sul fatto che, nel corso della mia tenebrosa gioventù soprannaturale, mi ero creato compagni che non avrebbero mai potuto essere davvero tali: Gabrielle, che non aveva bisogno di me; Nicolas, che era diventato pazzo; Louis, che non riusciva a perdonarmi di averlo iniziato al regno dell’immortalità, sebbene l’avesse voluto lui stesso.
Claudia era stata l’unica eccezione. La mia intrepida, piccola Claudia, compagna di caccia e sterminatrice di sventurati, la vampira par excellence. Proprio quella sua forza affascinante l’aveva indotta a rivoltarsi contro il suo creatore. Sì, lei era stata l’unica simile a me. E quella poteva essere la ragione per cui ora mi dava la caccia.
Di certo c’era qualche relazione col mio amore per David! Come avevo fatto a non rendermene conto prima? Era grande il mio affetto per lui, com’era stato profondo il senso di vuoto allorché Claudia si era rivoltata contro di me, cessando di essere la mia compagna.
Quei manoscritti, però, facevano luce anche su un altro punto importante: David era proprio l’uomo che aveva rifiutato il Dono Tenebroso, e fino alle estreme conseguenze. Quell’uomo in realtà non aveva paura di nulla. La morte non gli piaceva, ma non ne aveva timore. Non ne aveva mai avuto.
Comunque non ero venuto a Parigi solo per leggere quelle memorie. Avevo un altro proposito in mente. Lasciai il beato isolamento senza tempo dell’albergo e cominciai ad aggirarmi con deliberata lentezza per la città.
In rue Madeleine comprai alcuni abiti eleganti, inclusa una giacca a doppio petto in cachemire blu scuro. Quindi trascorsi diverse ore sulla rive gauche, visitando i suoi vivaci e invitanti caffè e ripensando al racconto di David su Dio e sul Diavolo. Mi chiedevo che cosa mai avesse visto davvero. Parigi può essere un luogo perfetto per Dio e il Diavolo, ma…
Per un po’ viaggiai servendomi della metropolitana. Studiavo gli altri passeggeri, cercando di capire che cosa avevano i parigini di così diverso. Era la loro prontezza, la loro energia, oppure il modo con cui evitavano d’incrociare lo sguardo con gli altri? Non sapevo dirlo. Erano molto diversi dagli americani, l’avevo osservato ovunque… Mi resi conto che li capivo. Anzi mi piacevano proprio.
Quella Parigi era una città così opulenta, così traboccante di pellicce, gioielli e boutique da lasciarmi vagamente stupefatto. Sembrava anche più ricca delle città americane. Forse non era meno fastosa nella mia epoca, con le carrozze e gli uomini e le donne dalle parrucche bianche. Ma allora c’erano anche i poveri, che morivano addirittura per strada. Adesso invece vedevo solo i ricchi e, in certi momenti, sembrava quasi impossibile che quella città, coi milioni di automobili e con le innumerevoli case in pietra, gli alberghi e i palazzi, potesse esistere.
Naturalmente andai a caccia. E mi nutrii.
La notte seguente, al crepuscolo, mi trovavo all’ultimo piano del Centre Pompidou sotto un ciclo di un violetto puro come quello della mia adorata New Orleans. Osservai risvegliarsi tutte le luci nella grande distesa della città e ammirai la Tour Eiffel che, lontana, s’innalzava aguzza nella divina oscurità.
Ah, Parigi! Sapevo che sarei tornato ben presto. In una delle notti a venire mi sarei procurato un nascondiglio sull’Ile St. Louis, che avevo sempre amato… e andassero pure a quel paese le grandi case di avenue Foch. Avrei trovato l’edificio dove una volta Gabrielle e io avevamo esercitato insieme la Magia Tenebrosa, con la madre che induceva il figlio a fare di lei sua figlia, mentre la vita mortale l’abbandonava, come se non fosse altro che una mano da me afferrata per il polso.
Avrei ripreso Louis con me, lui che prima di perdere Claudia aveva adorato questa città. Sì, dovevo portarlo ad amarla ancora.
Nel frattempo avrei camminato fino al Café de la Paix, passando di fronte al grande albergo dove Louis e Claudia avevano alloggiato durante quel tragico anno del regno di Napoleone III, e mi sarei seduto lì col mio bicchiere di vino, sforzandomi di pensare con calma a tutto quello che era successo.
Ebbene, era evidente che la prova da me sostenuta nel deserto aveva potenziato le mie capacità e che io ero pronto a fare qualcosa…
Le prime ore della mattina mi sorpresero appoggiato a un alto parapetto in pietra, molto vicino al ponte dell’ile de la Gite. Mentre la foschia calava sul fiume mezzo gelato, mi ero lasciato cogliere da un po’ di nostalgia e di tristezza per i vecchi edifici in rovina, quelli che risalivano al 1780. Fu allora che vidi il mio uomo.
Sulle prime, avvertii quella sensazione e fui subito in grado di riconoscerla. La studiai nel suo decorso: il vago senso di disorientamento che mi prendeva senza mai farmi perdere il controllo, le lievi e deliziose vibrazioni, poi il profondo effetto di costrizione che, come la volta precedente, coinvolgeva la mia intera persona, dalle dita di mani e piedi, alle braccia, alle gambe, al tronco. Era come se il mio intero corpo, pur mantenendo le sue esatte proporzioni, stesse diventando sempre più piccolo, e io fossi sospinto a forza fuori della mia forma «ristretta». E nel preciso istante in cui sembrava ormai impossibile che io potessi rimanere dentro me stesso, la testa si schiariva, e le sensazioni cessavano.
Era accaduto così entrambe le volte precedenti. Mi mantenni vicino al ponte, cercando di riflettere e di memorizzare i dettagli. Fu allora che vidi una piccola auto ammaccata fermarsi con un sobbalzo sulla riva opposta del fiume. Ne scese lui, il giovane dai capelli castani. Muovendosi in modo goffo come la volta precedente, e allungandosi in tutta la sua altezza con fare esitante, mi fissava coi suoi occhi estatici e luccicanti.
Aveva lasciato acceso il motore dell’utilitaria. Come la volta precedente, sentii l’odore della sua paura. Naturalmente lui sapeva che io l’avevo visto, su quello non c’era dubbio. Ero rimasto lì per due ore intere, in attesa che lui mi trovasse, e suppongo che lui l’avesse capito.
Infine si fece coraggio e attraversò il ponte immerso nella nebbia. Avvolta in un lungo cappotto e con una sciarpa bianca intorno al collo, la sua figura produceva un effetto notevole. Un po’ camminando e un po’ correndo, lui si fermò a pochi passi da me, mentre io rimanevo lì, col gomito appoggiato al parapetto, a fissarlo freddamente. Mi piantò davanti agli occhi un altro piccolo involucro. Gli afferrai la mano.
«Non avere fretta, Monsieur de Lioncourt!» bisbigliò in tono disperato. Aveva l’accento inglese del ceto nobiliare, molto simile a quello di David, e pronunciava il francese in modo quasi perfetto. Stava per morire dalla paura. «Chi sei?» domandai.
«Ho una proposta per te! Saresti uno stupido se non l’ascoltassi. È qualcosa che desideri ardentemente. E nessun altro al mondo è in grado di offrirtela, stanne certo!»
Lo lasciai andare e lui balzò indietro, quasi capitombolando, con la mano protesa nel precipitoso tentativo di afferrare il parapetto di pietra. Che cosa c’era nei gesti di quell’uomo? Era forte e robusto, ma si muoveva come se fosse un’esile, incerta creatura. Non riuscivo a capire.
«Spiegami questa proposta, e fallo subito. Ora!» esclamai. Il suo cuore — lo sentivo — stava quasi per fermarsi.
«No», rispose lui. «Ma ne potremo parlare molto presto.»
La sua voce era misurata ed elegante, decisamente troppo ricercata per i grandi occhi scuri e vitrei, e per il giovane viso largo e levigato. Si trattava forse di una delicata pianta di serra che era riuscita a raggiungere incredibili proporzioni grazie alla compagnia di persone anziane, senza avere mai visto qualcuno della propria età?