David mormorò qualcosa sottovoce. Appariva irritato e impaziente, anche se sul suo volto si leggevano affetto e partecipazione.
Gli mandai un piccolo bacio e me ne andai.
Dopo un’ora, mi resi conto che non ero in grado di trovare quello scaltro individuo. Se si trovava a Parigi, era nascosto in modo tale da impedirmi di captare anche il più debole riflesso della sua presenza. E da nessuna parte catturai una sua immagine nella mente di qualcun altro.
Ciò non significava affatto che lui non fosse a Parigi. La telepatia è assai casuale e Parigi è una città immensa, piena zeppa di gente di tutti i Paesi del mondo.
Alla fine tornai all’albergo, e scoprii che David se n’era già andato, lasciandomi tutti i suoi numeri per poter essere raggiunto. Per favore, mettiti in contatto con me domani sera, aveva lasciato scritto. Per allora, dovrei avere per te qualche informazione.
Salii di sopra a fare i preparativi per il ritorno a casa. Non potevo aspettare di rivedere quel pazzo mortale. E Louis… Dovevo raccontargli tutto. Lui naturalmente non avrebbe creduto che fosse possibile: avrebbe detto anzitutto questo, poi però avrebbe capito la grande attrattiva dell’intera faccenda. Eccome se l’avrebbe capita!
Mi trovavo nella stanza da poco meno di un minuto, intento a valutare se c’era qualcosa che dovevo prendere con me, come per esempio i manoscritti di David, quando vidi un involucro posato sul tavolo accanto al letto. Era appoggiato a un grande vaso di fiori e, in una grafia sicura e piuttosto maschile, recava la scritta CONTE VAN KINDERGARTEN.
Nel momento stesso in cui lo vidi, seppi che si trattava di un biglietto da parte sua. Il messaggio all’interno era scritto a mano, nello stesso stile sicuro, pesantemente calcato.
Non avere fretta. E non dare nemmeno ascolto al tuo stupido amico del Talamasca. Ci vedremo a New Orleans, domani notte. A Jackson Square. Non mi deludere. Sarà l’occasione per realizzare indisturbati una piccola alchimia. Penso che tu ora capisca la posta in gioco. Distinti saluti,
Raglan James
«Raglan James», mormorai. Raglan James. Il nome non mi piaceva. Il nome era come lui.
Chiamai il portiere e, in francese, chiesi: «Ho sentito parlare di questo sistema di comunicazione, il fax. Ce lo avete, qui? Mi spieghi come funziona, per favore».
Era come sospettavo: attraverso un cavo telefonico, un facsimile completo di quella breve nota poteva essere inviata dall’albergo all’apparecchio di David a Londra. E lui avrebbe potuto vedere anche la calligrafia dell’individuo che l’aveva scritta, per quel che poteva valere.
Raccolsi i manoscritti, mi fermai alla reception col biglietto di Raglan James, lo feci faxare e me lo ripresi indietro, quindi andai a Notre-Dame per dire addio a Parigi con una breve preghiera.
Ero impazzito. Davvero fuori di me. Quando mai avevo conosciuto una felicità così assoluta? Me ne stavo nell’oscurità della cattedrale, che in quel momento era chiusa per via dell’ora tarda, e pensavo alla prima volta che vi ero entrato, innumerevoli decenni prima. Davanti alle porte della chiesa non c’era nessuna grande piazza, ma solo la piccola piace de Grève, attorniata da edifici un po’ contorti, né a Parigi c’erano i grandi viali come ci sono adesso, ma solo ampie strade fangose, che a noi sembravano già elegantissime.
Pensai a tutti quei cicli azzurri e alla fame, quella vera, quella di pane e carne, a come ci si sentiva quando ci si ubriacava col vino buono. Pensai a Nicolas, al mio amico mortale, che avevo amato tanto, e al freddo che c’era nella nostra piccola soffitta. Pensai a Nicki e me che discutevamo come avevo fatto con David! Oh, sì.
Da allora, sembrava che la mia lunga e impegnativa esistenza fosse stata un incubo, un grande incubo popolato di giganti, mostri e orribili maschere spettrali che nascondevano i volti di esseri che mi minacciavano nelle eterne tenebre. Tremavo e piangevo. Diventare umano, pensai. Ritornare a essere un umano. Credo che pronunciai quelle parole ad alta voce.
Poi il sussurro di un’improvvisa risata mi fece trasalire. Era una voce infantile da qualche parte nell’oscurità: una bambina.
Mi guardai intorno. Ero quasi certo di poterla vedere: una figurina grigia che attraversava in un balzo la navata laterale verso un altare secondario, per poi sparire alla vista. I suoi passi si udivano appena, ma di certo si trattava di un errore: non c’era nessun profumo, nessuna presenza reale. Era solo un’illusione.
Tuttavia urlai: «Claudia!»
La voce mi tornò indietro, scomposta in un’aspra eco. Naturalmente lì non c’era nessuno.
Pensai a David, che mi aveva detto: «Stai per fare un altro, tremendo errore!»
Sì, ho fatto errori tremendi. Come posso negarlo? Tremendi, tremendi errori. Mi lasciai prendere di nuovo dall’atmosfera dei miei sogni recenti, ma riuscii a non farmi coinvolgere troppo. Rimaneva solo l’evanescente sensazione della sua presenza, qualcosa che aveva a che fare con una lampada a olio e la sua risata.
Pensai ancora alla sua esecuzione: il pozzo d’aria rivestito di mattoni, il sole che incombe, le sue minuscole proporzioni. Poi il ricordo del dolore nel deserto dei Gobi si confuse col suo e non potei sopportarlo oltre. Mi resi conto di essermi cinto il petto con le braccia. Stavo tremando. Il mio corpo rigido sembrava in preda a un elettroshock. Ah, ma di certo lei non aveva sofferto. Certamente la morte era stata istantanea per una creatura così piccola e delicata. Cenere alla cenere…
Tutto ciò era tormento allo stato puro. Non era quello il periodo che volevo ricordare. Non importava quanto tempo fossi rimasto al Café de la Paix, o quanto forte credevo di essere diventato. Era la mia Parigi, quella che risaliva a prima del Teatro dei Vampiri, quand’ero vivo e innocente.
Per un bel pezzo rimasi nell’oscurità, limitandomi a guardare le grandi arcate che si ramificavano sopra di me. Che chiesa straordinaria e maestosa era quella, anche avvolta dal frastuono del traffico. Era come una foresta di pietra.
Le mandai un bacio, come avevo fatto con David. E me ne andai, pronto a intraprendere il lungo viaggio verso casa.
7
New Orleans. Arrivai di sera, piuttosto presto, dal momento che avevo viaggiato a ritroso, in senso contrario alla rotazione terrestre. L’aria era fredda e frizzante, ma non così pungente, sebbene soffiasse un fastidioso vento da settentrione. Il ciclo senza una nuvola era punteggiato di piccole e nitidissime stelle.
Mi recai subito nel mio piccolo attico nel Quartiere Francese. A dispetto di tutto il suo fascino, non è molto alto, trovandosi in cima a un edificio di quattro piani costruito parecchio tempo prima della Guerra Civile. Offre una vista piuttosto appartata del fiume e dei suoi splendidi ponti gemelli e, se le finestre sono aperte, cattura i rumori del movimentato Café du Monde e dei negozi affollati delle vie intorno a Jackson Square.
Dovevo aspettare solo fino all’indomani sera per l’appuntamento con Raglan James. Impaziente com’ero per quell’incontro, trovavo che il programma fosse perfetto, poiché volevo andare subito a scovare Louis.
Prima mi concessi però il mortale ristoro di una doccia calda e indossai un fresco vestito di velluto nero, molto semplice e curato, piuttosto simile agli abiti che portavo a Miami, e un nuovo paio di stivali neri. Se fossi stato ancora in Europa, a quell’ora sarei già stato a dormire sottoterra. Ignorando tuttavia la stanchezza, me ne andai per la città, camminando come un mortale.
Per motivi di cui non ero troppo sicuro, passai dal vecchio indirizzo in rue Royale, dove Claudia, Louis e io avevamo vissuto una volta. In realtà lo facevo abbastanza spesso, non permettendo mai a me stesso di pensarci finché non ero arrivato.