Il suo abbigliamento è sempre vecchio stile. Come fanno molti di noi, va a scovare abiti che ricordano la moda dell’epoca della sua vita mortale. Predilige grandi camicie sciolte con maniche rimboccate e alti polsini, e pantaloni attillati. Quanto alle giacche, che indossa di rado, sceglie come me quelle da fantino, molto lunghe e ricche ai bordi.
Talvolta gli porto alcuni indumenti in regalo, per evitare che indossi i suoi pochi capi finché non sono ridotti in stracci. Mi era venuta anche la tentazione di sistemargli la casa, di attaccare i quadri, di riempire quel luogo con mobili eleganti, facendolo tornare al lusso inebriante di cui godeva in passato. Credo che lui desiderasse che io lo facessi, anche se non voleva ammetterlo. Viveva senza elettricità, oltre che senza riscaldamento, e vagava nel caos, pretendendo di essere soddisfatto.
Alcune delle finestre della casa erano senza vetri e solo di tanto in tanto lui serrava le imposte vecchio stile. Non sembrava che gli importasse se la pioggia entrava, bagnando i suoi beni, anche perché non erano proprio beni, ma solo cianfrusaglie ammucchiate qua e là.
Eppure, lo ripeto, sono convinto che Louis volesse che io facessi qualcosa a tal riguardo. Era incredibile quanto spesso venisse a trovarmi nel mio appartamento in centro, surriscaldato e pieno di luce. Lì rimaneva per ore a guardare il mio televisore megascreen. Talvolta era lui stesso a portare film come In compagnia dei lupi, che ha guardato più e più volte, La bella e la bestia di Jean Cocteau, che gli piaceva molto, e poi ancora The Dead — Gente di Dublino, di John Huston, tratto da un racconto di James Joyce. E, intendiamoci, quel film non ha nulla a che fare con noi, ma parla di un gruppo d’irlandesi abbastanza comuni che, nella prima parte di questo secolo, si riuniscono per una cena natalizia. C’erano poi molti altri film con cui si dilettava. Io però non potevo mai chiedergli di venirmi a trovare e comunque le visite non duravano mai molto a lungo. Lui spesso deplorava il «materialismo volgare» in cui io «sguazzavo», voltando le spalle ai miei cuscini di velluto, alla fitta coltre di tappeti che ricopriva i miei pavimenti, alla profusione di marmi che rivestivano il mio bagno. E sgattaiolava via di nuovo, alla volta del suo tugurio ricoperto di rampicanti.
Quella notte, Louis sedeva lì, in tutto il suo polveroso splendore, con una macchia d’inchiostro sulla guancia pallida. Leggeva una monumentale biografia di Dickens, scritta di recente da un romanziere inglese, e voltava le pagine lentamente, dal momento che non è più veloce nella lettura della maggior parte dei mortali. A dire il vero, fra tutti noi sopravvissuti, lui è il più vicino alla natura umana. E rimane così per scelta.
Molte volte gli ho offerto il mio sangue più potente, ma lo ha sempre rifiutato. Il sole sul deserto dei Gobi l’avrebbe ridotto in cenere. Come tutti i vampiri, i suoi sensi sono sviluppatissimi, anche se non come quelli di un Figlio dei Millenni. Non riesce a leggere i pensieri degli altri con successo e, quando gli capita di far cadere un mortale in trance, è sempre un errore.
È ovvio che non posso leggere nella sua mente, dal momento che l’ho creato io: i pensieri del creatore e della sua creatura sono sempre preclusi l’uno all’altra, sebbene nessuno di noi sappia il perché. Il mio sospetto è che noi conosciamo benissimo i sentimenti e i desideri reciproci, ma che, essendo tali sentimenti e desideri troppo amplificati, nessuno di essi riesca a spiccare, a definirsi con chiarezza. Teorie. Un giorno o l’altro forse ci studieranno in laboratorio. Noi allora ci metteremo a implorare, come vere e proprie vittime, attraverso gli spessi muri di vetro delle nostre prigioni e loro c’incalzeranno con mille domande e preleveranno campioni di sangue dalle nostre vene. Già, ma come potranno fare tutto ciò al vecchio Lestat, che può ridurre in cenere gli esseri umani con la semplice forza del pensiero?
Nell’erba alta, fuori del suo tugurio, Louis non mi udiva.
Come una grande ombra sfuggente, scivolai nella stanza e in un attimo fui seduto di fronte a lui, sulla mia bergère preferita di velluto rosso, che avevo portato lì apposta per me molto tempo prima.
Lui alzò gli occhi. «Ah, sei tu!» disse subito, richiudendo di scatto il libro.
A dispetto di tutto il vigore che lasciava trasparire, il suo viso, piuttosto magro e liscio per natura, era delicato. In quel momento era anche acceso da uno splendido rossore: era andato a caccia presto, avevo dimenticato di dirlo. Per un istante mi sentii a terra.
Eppure era stuzzicante vederlo così animato dal palpito vibrante del sangue umano. Potevo anche sentirne l’odore, il che conferiva una curiosa dimensione al fatto di trovarmi vicino a lui. La sua bellezza mi ha sempre fatto impazzire. Quando non sono con lui, credo d’idealizzarlo nella mia mente, ma d’altra parte, quando lo rivedo, ne rimango sopraffatto.
Ovviamente fu la sua bellezza ad attirarmi, nelle mie prime notti qui, in Louisiana. Questa terra allora era una colonia selvaggia senza legge, mentre lui era un folle spericolato dedito al bere, un giocatore d’azzardo e un attaccabrighe nelle taverne: faceva di tutto per provocare la propria morte. Ebbene, ottenne quello che riteneva di desiderare. Più o meno.
Per un attimo, non riuscii a capire l’espressione di orrore sul suo viso mentre mi fissava, o il motivo per cui d’un tratto si alzò, venne verso di me e si chinò per toccarmi il volto. Poi ricordai: la mia pelle scurita dal sole.
«Che cos’hai fatto?» bisbigliò. S’inginocchiò, alzando lo sguardo su di me, lasciando che la sua mano si posasse sulla mia spalla. Una deliziosa intimità che non diedi segno di cogliere, rimanendo seduto compostamente sulla poltrona.
«Non è nulla», dissi. «Sono andato in un luogo desertico, volevo vedere che cosa sarebbe accaduto…»
«Volevi vedere che cosa sarebbe accaduto?» ripeté, alzandosi. Poi fece un passo indietro e mi puntò gli occhi addosso. «Tu volevi annientarti, non è vero?»
«Non proprio», risposi. «Sono rimasto disteso alla luce per un giorno intero. La mattina dopo, in un modo o nell’altro, mi sono intrufolato sotto la sabbia.»
Mi fissò per un lungo istante, come se stesse per esplodere in un moto di disapprovazione, poi si ritirò alla sua scrivania, si sedette in modo un po’ rumoroso per un essere di tale eleganza, ricompose le mani sul libro chiuso e mi guardò, infuriato. «Perché l’hai fatto?»
«Louis, c’è qualcosa di più importante che devo dirti», dissi. «Dimenticati di tutto ciò.» Indicai il mio volto. «È accaduto un fatto davvero eccezionale e io ti devo raccontare l’intera storia.» Mi alzai, perché non riuscivo a contenermi. Presi a muovermi, attento a non incespicare nei disgustosi cumuli di ciarpame disseminati qua e là. Ero molto infastidito per la luce fioca della candela, non perché m’impedisse la visibilità, ma perché era così debole, mentre io amo la luce.
Gli raccontai ogni cosa: come avevo visto quella creatura, Raglan James, a Venezia, Hong Kong e Miami; come lui mi avesse mandato un messaggio a Londra per poi seguirmi a Parigi; come fossimo sul punto d’incontrarci, la notte seguente. Esposi il contenuto dei racconti e il loro significato. Spiegai la singolarità di quel giovane, il fatto che lui non si trovasse all’interno del proprio corpo e la mia convinzione che lui potesse operare uno scambio di quel tipo.
«Tu sei pazzo», disse Louis. «Non avere fretta», risposi.