A un più attento esame capii che molto verosimilmente si trattava di pastore tedesco, col caratteristico muso nero e l’aria vigile. Quando poi mi avvicinai al bordo del tetto, e lui infine mi vide, mi sentii vagamente eccitato dalla fiera intelligenza che brillava nei suoi occhi scuri.
Tuttavia non abbaiò, né ringhiò. Sembrava che in lui ci fosse una capacità d’intendere quasi umana. Ma ciò spiegava forse il suo silenzio? Non avevo fatto nulla per affascinarlo, né avevo blandito o confuso la sua mente canina. No, quell’animale non mostrava un’istintiva avversione per nulla.
Mi lasciai cadere sulla neve davanti a lui, ma il cane si limitò a guardarmi con quei suoi occhi singolari ed espressivi. Era così imponente, tranquillo e sicuro di sé, che ridacchiai divertito mentre lo guardavo. Non riuscii a trattenermi dall’avvicinarmi a lui per accarezzare il morbido pelo tra le orecchie.
Lui inclinò la testa da un lato senza distogliere lo sguardo da me, e io trovai quel gesto assai commovente. Poi, con mia ulteriore meraviglia, sollevò una zampa enorme e mi sfiorò il cappotto. Le sue ossa erano così massicce che mi ricordarono quelle dei miei mastini: quando si muoveva, mostrava la loro stessa grazia lenta e pesante. Mi allungai per abbracciarlo, ammirando la sua forza e la sua mole. Lui allora si alzò sulle gambe posteriori e mi appoggiò le zampe sulle spalle, facendomi scorrere sul viso la sua grande lingua rosa.
Mi sentii pervadere da una straordinaria felicità, molto vicina al pianto, e poi mi abbandonai a un riso spensierato. Strofinai il mio viso su di lui, lo strinsi a me, lo accarezzai. Quindi, assorbendo l’odore pulito del suo pelo, gli baciai il muso nero e lo guardai negli occhi.
Ah, ecco ciò che vide Cappuccetto Rosso osservando il lupo con la vestaglia e la cuffia da notte della nonna, pensai. L’espressione intensa del muso scuro era infatti davvero bizzarra.
«Perché non mi riconosci per quello che sono?» chiesi. Ma poi, non appena il cane si abbassò a sedere, guardandomi docile e maestoso, un pensiero mi colpì: quell’animale era un presagio.
No, «presagio» non è il termine appropriato. Quel dono non proveniva da nessuno, era soltanto qualcosa che mi rammentava ciò che avevo intenzione di fare, perché volevo farlo e l’indifferenza che provavo nei confronti dei rischi che comportava.
Rimasi accanto al cane a coccolarlo per qualche istante. Nel piccolo giardino la neve continuava a cadere, alzando il livello del manto bianco intorno a noi. La sensazione di gelida sofferenza sulla mia pelle cresceva. Nella tempesta silenziosa gli alberi apparivano spogli e neri, e se anche c’erano fiori o erba, non erano visibili. Solo qualche annerita statua da giardino e alcuni arbusti spogli si stagliavano, nitidi, nella neve.
Probabilmente rimasi lì col cane per almeno tre minuti prima che la mia mano scoprisse la rotonda medaglietta d’argento che gli pendeva dall’anello del collare: l’afferrai e la esposi alla luce.
Mojo: conoscevo quella parola. Aveva a che fare col vudù, con gli amuleti e con le formule magiche. Mojo era un talismano di protezione. Trovai che fosse uno splendido nome per un cane. E, quando lo chiamai Mojo, l’animale mostrò una vaga eccitazione e di nuovo mi accarezzò piano con la sua zampa impaziente.
«Ti chiami Mojo, eh?» dissi di nuovo. «È un nome molto bello.» Lo baciai e sentii la punta coriacea del suo naso nero. Ma c’era un’altra scritta sulla medaglietta: era l’indirizzo della casa.
D’un tratto il cane s’irrigidì, alzandosi in modo lento e aggraziato, e si mise in posizione d’allerta. James stava arrivando. Udii i passi che scricchiolavano nella neve e il rumore della chiave nella serratura della porta d’ingresso. E sentii che avvertiva la mia presenza.
Il cane eruppe in un ringhio basso e feroce, e si avvicinò alla porta sul retro della casa. Mi giunse all’orecchio lo scricchiolio delle tavole del pavimento sotto il passo pesante di James.
L’animale cominciò ad abbaiare in tono cupo e rabbioso. James aprì la porta, piantò i suoi occhi furiosi su di me, sorrise, scagliò contro il cane qualcosa di pesante che lui schivò senza difficoltà e disse: «Lieto di vederti ! Ma sei in anticipo».
Non risposi. Il cane continuava a ringhiargli contro, minaccioso, e lui, con palese fastidio, rivolse ancora la sua attenzione all’animale.
«Liberati di lui !» sbottò, completamente fuori di sé. «Uccidilo!»
«Stai parlando con me?» chiesi, gelido. Posai di nuovo la mano sulla testa del cane, accarezzandolo e sussurrandogli di stare calmo. Lui mi si avvicinò, strusciandomi contro il suo fianco pesante, poi mi si sedette proprio accanto.
Teso e tremante, James si rialzò il bavero per ripararsi dal vento e incrociò le braccia al petto. La neve gli svolazzava intorno come polvere bianca, attaccandosi alle sopracciglia e ai capelli scuri.
«Appartiene a questa casa, no?» dissi freddamente. «E tu non sei il legittimo proprietario di questa casa.»
Lui mi guardò con evidente ostilità, poi fece balenare uno dei suoi maligni e terribili sorrisi. Desiderai che tornasse a impersonare la parte del gentiluomo inglese: era molto più facile per me quando si comportava così e mi resi conto che era una condizione essenziale per trattare con lui. Mi domandai se Saul avesse trovato la negromante di Endor così orribile. Ma il corpo, quello sì, che era splendido. Neppure il suo rancore, mentre teneva gli occhi fissi sul cane, riusciva a comprometterne del tutto la bellezza.
«Bene, sembra che tu ti sia appropriato anche del cane», completai.
«Me ne sbarazzerò», bisbigliò lui, continuando a guardarlo con crudele disprezzo. «E tu, a che punto sei? Non aspetterò in eterno una decisione. Non mi hai ancora dato una risposta sicura: la voglio ora.»
«Domattina va’ alla tua banca», replicai. «Ci vedremo quando sarà calata la notte. Ma c’è una condizione supplementare.»
«Quale?» chiese a denti stretti.
«Da’ da mangiare all’animale. Dagli un po’ di carne.»
Poi uscii così velocemente che lui non se ne accorse. Quando mi voltai per dare un’occhiata, scorsi Mojo che mi fissava attraverso l’oscurità carica di neve e sorrisi al pensiero che il cane avesse colto la mia mossa repentina. L’ultimo suono che udii fu la voce di James, che imprecava tra sé mentre sbatteva la porta sul retro.
Un’ora più tardi, me ne stavo disteso nell’oscurità, in attesa del tramonto, pensando ancora alla mia adolescenza in Francia, ai cani accucciati vicino a me, a come fossi riuscito a sopravvivere durante quell’ultima caccia, con quei due enormi mastini che avanzavano nella neve alta.
E poi ripensai anche al volto del vampiro che, a Parigi, mi scrutava nell’oscurità, chiamandomi «Uccisore di Lupi» con una tale deferenza, una deferenza così folle, prima di affondare nel mio collo i denti aguzzi.
Mojo, un presagio.
È così che succede: affondiamo una mano nel caos furibondo, raccogliamo qualche piccolo oggetto luccicante e ci aggrappiamo a esso, ripetendoci che quella cosa ha un senso, che il mondo è buono, che noi non siamo cattivi e che alla fine torneremo a casa.
Se quel bastardo sta mentendo, domani notte gli squarcerò il petto, gli strapperò il cuore palpitante e lo darò in pasto a quel grosso e splendido cane.
Qualunque cosa accada, mi prenderò cura di quel cane.
E infatti così feci.
Tuttavia, prima che il racconto prosegua, lasciate che vi spieghi una cosa a proposito di quel cane: in questo libro, lui non farà nulla.
Non salverà un bambino in procinto d’affogare, né si precipiterà all’interno di un edificio in fiamme per risvegliare i suoi abitanti da un sonno quasi fatale. Non è posseduto da uno spirito malvagio, né è un cane vampiro. Compare in questo romanzo soltanto perché io l’ho trovato nella neve dietro quella villetta di Georgetown, e perché io lo amavo, come lui, in qualche modo, ha amato me fin dal primo momento. Era tutto assolutamente conforme alle cieche e spietate leggi in cui credevo, le leggi della natura, come le chiamano gli uomini, o le leggi del Giardino Selvaggio, come le chiamo io. Mojo amava la mia forza, io la sua bellezza. E nient’altro aveva importanza.