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Mi sforzai di aprire gli occhi prima ancora di rendermi conto di quello che stavo facendo. Stavo infatti soffregando le palpebre di quel corpo mortale, le stavo addirittura battendo. Mi ritrovai così a guardare attraverso gli occhi mortali quella stanza debolmente illuminata, a fissare il mio corpo precedente, la mia pelle abbronzata, i miei occhi azzurri che mi scrutavano a loro volta attraverso le lenti violette degli occhiali.

Rischiavo di soffocare — dovevo evitarlo a ogni costo —, ma ce l’avevo fatta: ero dentro il corpo! Ero dentro quel corpo! Lo scambio era riuscito. Spinto da un impulso irrefrenabile, trassi un profondo respiro roco, muovendo quel mostruoso involucro di carne. Poi mi assestai una pacca sul petto e rimasi basito nell’avvertirne la consistenza massiccia. Infine ascoltar il basso, regolare sciabordio del sangue che passava attraverso il cuore.

«Mio Dio, sono dentro!» urlai, sforzandomi di dissolvere le tenebre che mi circondavano, il confuso velo d’ombra che m’impediva di vedere bene la splendida figura che, all’improvviso, aveva preso a rianimarsi davanti a me.

Il mio vecchio corpo si lanciò verso l’alto, con le braccia al ciclo come se fosse in preda a un orrore indicibile, mentre una mano andava a schiantarsi sulla lampadina, facendola esplodere, e la sedia sottostante crollava sul pavimento. Il cane balzò in piedi e prese ad abbaiare minacciosamente, con forti latrati gutturali.

«No, Mojo. Cuccia, amico.» Sentii le mie grida uscire da quella gola mortale solida e tesa e mi sforzai ancora una volta di vedere attraverso il buio, ma senza riuscirci. Capii che era mia, la mano che ghermiva il collare del cane e che lo strattonava, impedendogli di slanciarsi contro il vecchio corpo di vampiro, che a sua volta fissava l’animale attonito, mentre gli occhi azzurri brillavano, spalancati e privi d’espressione.

«Sì, uccidilo!» gridò James. La sua voce uscì dalla mia bocca soprannaturale in un agghiacciante tuono.

Portai le mani alle orecchie per proteggermi da quel fragore. Il cane si lanciò di nuovo in avanti e io ancora una volta lo afferrai per il collare, con le dita che mi dolevano nello stringere gli anelli della catena, sgomento per la forza dell’animale e per la debolezza delle mie braccia mortali. Buon Dio, ma quel corpo doveva pur funzionare! Quello era solo un cane, e io ero un mortale dotato di una forza notevole!

«Fermo, Mojo!» implorai, mentre il cane mi trascinava a terra, facendomi ricadere dolorosamente sulle ginocchia. «E tu, vattene di qui!» gridai. Il dolore alle ginocchia era terribile. La mia voce suonava debole e opaca. «Vattene!» urlai di nuovo.

La creatura che era stata me mi passò accanto sobbalzando, con le braccia che ciondolavano, e andò a sbattere rumorosamente contro la porta sul retro, mandando i vetri in frantumi e lasciando entrare una fredda raffica di vento. Il cane impazzito era diventato quasi impossibile per me da controllare.

«Vattene!» urlai di nuovo e rimasi a guardare, costernato, la creatura che indietreggiava, passando per la porta, fracassando il legno e il resto dei vetri, per poi innalzarsi dal pavimento della veranda nella notte carica di neve.

Lo vidi per un ultimo istante, sospeso a mezz’aria sopra l’entrata posteriore: un’apparizione ripugnante. La neve turbinava intorno a lui, i suoi arti si muovevano ormai in perfetto accordo come se fosse un nuotatore in un mare invisibile. I suoi occhi azzurri erano ancora spalancati e vuoti, come se lui non riuscisse a piegare in una qualche espressione la carne soprannaturale intorno a loro, e luccicavano al pari di due gemme incandescenti. La sua bocca, la «mia» bocca, si allargava in un assurdo ghigno.

Quindi sparì.

Mi mancava il fiato. La stanza era gelida e le raffiche di vento facevano cozzare tra loro le pentole di rame allineate sullo scaffale e sbattere la porta della cucina.

All’improvviso il cane si zittì.

Mi resi conto di essere seduto sul pavimento accanto a lui, col braccio destro serrato intorno al suo collo e il sinistro posato sul suo torace. Ogni respiro che traevo era una sofferenza e tenevo gli occhi socchiusi, per via della neve che li sferzava. Mi sentivo intrappolato in quello strano corpo, che pareva imbottito di piombo e avvolto in una fodera per materassi, mentre l’aria fredda m’irritava viso e mani.

«Buon Dio, Mojo», sussurrai nel suo orecchio morbido e rosato. «Buon Dio, è successo. Sono un uomo mortale.»

11

«Okay», mormorai scioccamente, di nuovo sorpreso dal suono debole e trattenuto della mia voce, sebbene parlassi piano. «Abbiamo cominciato: ora devo cercare di controllarmi.» Quell’idea mi fece ridere.

Il vento gelido era l’aspetto peggiore. Mi battevano i denti e il dolore pungente che avvertivo sulla pelle era assai diverso da quello che percepivo come vampiro. Bisognava riparare la porta, ma non avevo idea di come farlo.

E ne era rimasto poi qualcosa, della porta? Non riuscivo a capire. Era come cercare di vedere attraverso una nube di fumogeni. A poco a poco mi alzai, rendendomi subito conto dell’aumento di altezza e sentendomi molto instabile e sbilanciato.

Dalla stanza era svanita ogni traccia di calore. Anzi potevo udire il sibilo delle folate di vento che entravano nella casa intera. Con cautela, uscii sulla veranda. Ghiaccio. I piedi scivolarono verso destra e mi trovai scaraventato all’indietro, contro lo stipite della porta. Fui assalito dal panico, ma con le lunghe dita tremanti riuscii ad aggrapparmi al legno bagnato e a evitare di cadere. Di nuovo, mi sforzai di vedere nell’oscurità, senza riuscire a distinguere nulla.

«Cerca di calmarti», mi dissi, consapevole del fatto che le dita sudavano e si congelavano nel contempo, e che anche i piedi mi dolevano per il freddo. «Non c’è luce artificiale qui, ecco tutto, e stai guardando con gli occhi di un mortale. Usa la testa!» Così, camminando con estrema cautela, e quasi scivolando, tornai dentro.

Riuscii a vedere i contorni indistinti di Mojo, là seduto che mi guardava, ansimando, e notai un debole luccichio in uno dei suoi occhi scuri. Mi rivolsi a lui con dolcezza: «Sono io, Mojo… Sono io!» Poi gli accarezzai il morbido pelo tra le orecchie. Raggiunsi il tavolo e mi misi a sedere goffamente sulla sedia, sorpreso per l’ennesima volta dalla densità della mia nuova carne, oltre che dalla sua flaccidezza. Premetti una mano sulla bocca.

E accaduto davvero, pensai. Non c’è il minimo dubbio in proposito. È uno splendido miracolo, ecco che cos’è. Ti sei davvero liberato di quel corpo soprannaturale! Sei un essere umano, un uomo a tutti gli effetti. Adesso basta panico. Mettiti a pensare come l’eroe che ti vanti di essere! Ci sono questioni pratiche da affrontare: la neve che entra e ti cade addosso, il corpo mortale che sta per congelarsi… Per l’amor del ciclo! Affronta la cosa come si deve!

Eppure, nonostante quei propositi, mi limitai a spalancare ancora di più gli occhi e a fissare la neve che si andava ammonticchiando in piccoli cristalli scintillanti sulla superficie bianca del tavolo. Aspettavo che quella visione diventasse più chiara da un momento all’altro, cosa che naturalmente non sarebbe avvenuta.

Quello era tè rovesciato, no? E quelli? Ah, sì, erano vetri rotti. Attento a non tagliarti: non guarirai! Mojo mi si avvicinò, appoggiando il suo grande corpo caldo e peloso contro la mia gamba tremante. Una sensazione confortante. Ma perché sembrava così lontana, come se fossi avvolto da strati e strati di flanella? Perché non riuscivo a sentire quel suo meraviglioso profumo di lana pulita? Va bene, i sensi sono limitati. Dovevi aspettartelo.

Ora, va’ a guardarti allo specchio. Osserva il miracolo. Sì. Poi chiudi bene la stanza.