Выбрать главу

«Su, amico», dissi al cane, e insieme uscimmo dalla cucina. Mi diressi verso la sala da pranzo: i passi erano impacciati, lenti e pesanti. Con gesti goffi richiusi la porta. Il vento le si avventò contro, infilandosi tutto intorno, ma la porta tenne.

Mi girai, perdendo per un istante l’equilibrio, poi mi raddrizzai. Non dovrebbe essere così difficile abituarmi, per amor del ciclo! Mi ristabilii sui piedi e poi li guardai, stupito per come sembravano larghi, al pari delle mani, piuttosto grandi anch’esse, ma nient’affatto brutte da vedere. Non lasciarti prendere dal panico! L’orologio mi dava fastidio, ma ne avevo bisogno. Va bene, tieni l’orologio. Ma gli anelli? Quelli proprio non li volevo. Mi davano prurito. Volevo toglierli. Non ci riuscivo! Non venivano via. Mio Dio!

Ora smettila o finirai per impazzire perché non riesci a sfilarti gli anelli. È sciocco. Vacci piano. Non sai che esiste anche il sapone? Insaponati le mani, quelle grandi mani scure e congelate, e gli anelli verranno via.

Incrociai le braccia e mi feci scivolare le mani intorno ai fianchi, inorridito dalla sensazione viscida di sudore umano sotto la camicia, una cosa che non aveva nulla a che vedere col sudore del sangue. Poi trassi un profondo respiro, ignorando il senso di pesantezza al petto, che derivava delle semplici azioni d’inspirare e di espirare, e mi sforzai di guardare la stanza.

No, non è il momento di gridare per il terrore. Limitati a guardare la stanza.

Era molto buia. Una lampada a stelo in un angolo in fondo e un’altra piccola lampada sul caminetto erano accese, ma il locale appariva ancora avvolto nell’oscurità. Mi sembrava di essere immerso in un’acqua scura, quasi tinta d’inchiostro.

È normale, mi dissi. Questo è mortale. È così che loro vedono. Ma come appariva tutto sinistro, incompleto, privo di quell’apertura e di quella spazialità caratteristiche delle stanze in cui si muoveva un vampiro.

Com’era orribilmente cupo: le sedie lucide nell’oscurità, il tavolo appena visibile, la fievole luce dorata che s’insinuava negli angoli, gli alti stucchi sulle pareti che scomparivano nell’ombra, un’ombra impenetrabile. E com’era spaventosa la vuota oscurità del corridoio!

Qualsiasi cosa — dai topi a chissà che altro — si poteva nascondere in quelle ombre. Magari c’era addirittura un essere umano. Abbassai lo sguardo su Mojo e mi stupii per come il cane mi apparisse ancora indistinto; era misterioso, sì, ma in un modo alquanto diverso da prima. Dunque le cose andavano così: in quel tipo di oscurità, gli oggetti perdevano i contorni. Risultava impossibile valutare la loro reale consistenza o dimensione. Ah, però c’era lo specchio sul caminetto. Mi avvicinai, frustrato dalla pesantezza delle mie membra e da un’improvvisa paura d’inciampare che mi costrinse a guardarmi i piedi più di una volta. Portai la piccola lampada sotto lo specchio e illuminai il mio volto.

Ah, sì, ero lì dietro, ormai, e apparivo sorprendentemente diverso. Non c’era più tensione, né terribile lucentezza nervosa negli occhi… C’era un giovane uomo che mi fissava e che sembrava piuttosto impaurito.

Alzai la mano e sfiorai la bocca, le sopracciglia, la fronte, che era un po’ più alta della mia, e poi i morbidi capelli. Il viso era assai attraente, molto più di quanto mi fossi reso conto in precedenza: squadrato, privo di rughe pesanti, molto ben proporzionato e dagli occhi vividi. Ma non mi piaceva la paura nello sguardo che vedevo. No, non mi piaceva affatto. Tentai di scorgere un’espressione diversa, di atteggiare in qualche modo i lineamenti in modo che esprimessero la meraviglia che sentivo. Ma non era facile. E poi, era vero che provavo una sensazione di meraviglia. Mmm… Non riuscivo a vedere nulla in quel viso che venisse da dentro.

Lentamente, aprii la bocca e parlai. Dissi in francese che in quel corpo c’ero io, Lestat de Lioncourt, e che tutto andava bene. L’esperimento era andato in porto! Mi trovavo proprio agli inizi, quel James se n’era andato e tutto aveva funzionato a puntino! Ormai traspariva dagli occhi qualcosa della mia ferocia e, quando sorrisi, intravidi la mia natura maliziosa almeno per alcuni secondi prima che il sorriso svanisse per lasciare il posto a un’espressione vacua e sorpresa.

Mi voltai a guardare il cane al mio fianco che, com’era sua abitudine, mi stava fissando, del tutto soddisfatto. «Come fai a sapere che sono io e non James?» chiesi.

Drizzò la testa e con un orecchio fece un lievissimo movimento.

«Va bene. Facciamola finita con tutte queste debolezze e follie. Andiamo!» Cominciai ad avanzare verso il corridoio buio e, d’un tratto, la mia gamba destra partì per conto suo facendomi crollare a terra, mentre la mano sinistra slittava lungo il pavimento per attutire l’impatto, la testa andava a picchiare contro il caminetto di marmo e il gomito colpiva il focolare, generando un’esplosione improvvisa di dolore. I ferri del camino mi caddero addosso con un gran fracasso, ma quello non era ancora niente: avevo urtato il nervo del gomito e il dolore mi stava scorrendo come un fuoco lungo tutto il braccio.

Mi girai a faccia in su e per un attimo rimasi immobile, in attesa che il dolore passasse. Solo allora mi resi conto che la testa pulsava per via del colpo contro il camino di marmo. Allungai la mano e sentii che i capelli erano bagnati di sangue. Sangue!

Meraviglioso. Tutto ciò divertirebbe molto Louis, pensai. Mi tirai su, mentre il dolore si spostava dietro la fronte, come un peso che scivolasse sul davanti della testa, e ritrovai l’equilibrio tenendomi alla mensola del caminetto.

Ai miei piedi giaceva, piuttosto malconcio, uno dei numerosi tappetini: il colpevole. Gli diedi un calcio e mi girai, dirigendomi con grande cautela verso il corridoio.

Ma dove stavo andando? Cosa volevo fare? La risposta arrivò all’improvviso. La mia vescica era piena e il fastidio era peggiorato quand’ero caduto. Dovevo pisciare.

Non c’era un bagno, da qualche parte? Trovai l’interruttore del corridoio e il lampadario si accese. Per un lungo momento fissai tutte quelle piccolissime lampadine, circa una ventina, rendendomi conto che si trattava di un bel po’ di luce, al di là di quello che potevo pensare. E chi aveva detto poi che non mi era permesso accendere tutte le lampade della casa?

E fu proprio quello che feci. Attraversai il salotto, la piccola biblioteca e il corridoio sul retro. Stanza dopo stanza, la luce mi diede un senso di delusione: l’oscurità sembrava non volermi abbandonare e la mancanza di chiarezza degli oggetti mi lasciò allarmato e confuso.

Infine, facendo molta attenzione, mi avviai lungo le scale. A ogni istante temevo di perdere l’equilibrio, d’inciampare, ed ero infastidito per il vago dolore alle gambe. Erano gambe così lunghe.

Quando mi voltai a guardare in basso, rimasi stordito. Potresti cadere e ammazzarti, mi dissi.

Mi girai ed entrai nel piccolo bagno, individuando la luce. Dovevo pisciare, dovevo e basta, ed erano più di duecento anni che non lo facevo.

Abbassai la cerniera di quei pantaloni moderni e tirai fuori il membro, che mi sorprese per le dimensioni e perché appariva assai flaccido. Le dimensioni andavano bene, ovvio. Chi non lo vorrebbe grosso? Ed era circonciso: un bel ritocco. Ma la sua scarsa consistenza lo faceva risultare particolarmente ripugnante al tatto, e io non lo volevo toccare. Fui costretto a ricordare a me stesso che quel membro era mio. Perbacco!

E il suo odore? E quello proveniente dai peli intorno? Ah, anche quelli sono tuoi! Dai, mettilo in funzione.

Chiusi gli occhi e, con una certa imprecisione e forse con un po’ troppa forza, esercitai una certa pressione. Ne uscì un grande arco d’orina puzzolente che mancò la tazza del water, andando a schizzare la ciambella bianca.

Disgustoso. Arretrai, correggendo la mira, e rimasi a guardare, attratto e schifato insieme, l’orina entrare nella tazza, formando bollicine sulla superficie dell’acqua. L’odore divenne sempre più forte e nauseante al punto che non riuscivo più a sopportarlo. Infine la mia vescica si svuotò del tutto. Ficcai di nuovo dentro i pantaloni quella cosa floscia e disgustosa, richiusi la cerniera e sbattei giù il coperchio del water. Tirai lo sciacquone. L’orina defluì, fatta eccezione per gli spruzzi che avevano colpito la ciambella e il pavimento.