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Non mi sarebbe piaciuto neanche da vampiro, no davvero, però non mi avrebbe nauseato fino a quel punto. Se fossi stato un vampiro, quella puzza sarebbe rimasta… al di fuori di me, all’esterno. Adesso invece sembrava connessa alla fame che provavo e provocava una sorta di contrazione alla gola. Improvvisamente quel sentore sembrò entrarmi nelle viscere: non era più un semplice odore, bensì un peso che scatenava in me un’intensa nausea.

Curioso. Sì, dovevo prendere nota di tutte quelle sensazioni.

Ecco che cosa significava essere vivi.

La giovane donna carina era tornata al suo posto. Vidi il suo profilo mentre abbassava lo sguardo sul foglio disteso sul banchetto di legno e alzava la penna per fare un segno. Aveva i capelli lunghi, scuri e ondulati, e la pelle molto chiara. Volevo osservarla meglio. Mi sforzai di catturare il suo profumo, ma non ci riuscii. Sentii soltanto la puzza del formaggio bruciato.

Aprii la porta, ignorando il pesante tanfo che mi colpì all’istante, e la varcai, finché non fui davanti alla ragazza. Per un istante, mi lasciai avvolgere dal calore benefico di quel luogo, odori compresi. La ragazza sembrava davvero molto giovane; aveva lineamenti piuttosto minuti e occhi neri dalla forma allungata. La bocca, sottolineata dal rossetto, era grande, e il collo era lungo, bellissimo. Il corpo era del XX secolo: pelle e ossa sotto un vestito nero.

«Mi scusi, Mademoiselle», dissi, accentuando il mio accento francese. «Ho molta fame, e fuori fa molto freddo. C’è qualcosa che posso fare per guadagnarmi un piatto di cibo? Potrei pulire i pavimenti, se crede, lavare pentole e tegami, qualunque cosa sia necessaria…»

Per un attimo mi fissò senza espressione. Poi fece un passo indietro, scosse i lunghi capelli ondulati, stralunò gli occhi e mi scoccò un’occhiata gelida, dicendo: «Vattene». La sua voce suonò piatta e metallica. Ovviamente non era così. Soltanto il mio orecchio mortale la sentiva in quel modo: non potevo percepire la risonanza che invece i vampiri captano.

«Potrei avere un pezzo di pane?» chiesi. «Un solo pezzo di pane…» Gli odori del cibo, sebbene disgustosi, mi tormentavano. Non riuscivo infatti a ricordare che gusto avessero gli alimenti, né rammentavo quale fosse la loro consistenza. Tuttavia qualcosa di umano stava prendendo il sopravvento. Avevo un disperato bisogno di nutrirmi.

«Se non te ne vai, chiamo la polizia», disse lei con voce incerta.

Tentai di leggerle nella mente: nulla. Mi guardai intorno, socchiudendo gli occhi per vedere nel buio. Provai a leggere nella mente anche degli altri umani: nulla. Non avevo poteri in quel corpo. Oh, ma non era possibile! La guardai di nuovo. Niente. Nemmeno un barlume dei suoi pensieri, né la percezione di quale tipo umano fosse in realtà.

«Molto bene», replicai, rivolgendole il sorriso più cortese di cui ero capace, senza la minima idea di come apparisse o dell’effetto che avrebbe potuto avere. «Spero che brucerai all’inferno per la tua mancanza di carità. Anche se Dio lo sa che io non merito di più.» Mi voltai ed ero sul punto di andarmene quando lei mi tirò per la manica.

«Senti…» mi disse, tremando un poco per l’irritazione e il disagio. «Non puoi venire qui e aspettarti che la gente ti dia da mangiare!» II sangue pulsava nelle sue guance bianche. Non potevo sentirne l’odore, ma riuscii a percepire una specie di profumo muschiato che lei emanava, in parte umano e in parte sintetico. E all’improvviso notai i due piccoli capezzoli che spingevano contro il tessuto dell’abito. Che sorpresa… Di nuovo, tentai di leggerle nel pensiero. Mi ripetevo che potevo riuscirci, che dopotutto quello era un potere innato. Ma non ci fu nulla da fare.

«Ti ho detto che avrei lavorato per guadagnarmi il cibo», ribattei, cercando di non guardare i suoi seni. «Farei qualsiasi cosa tu mi chiedessi. Senti, mi dispiace. Non voglio che bruci all’inferno. Ho detto una cosa orribile. Ma, sai, la mia fortuna è in ribasso, negli ultimi tempi. Mi sono successe cose davvero brutte. Guarda: quello là è il mio cane. Come faccio a dargli da mangiare?»

«Quel cane?» Attraverso il vetro guardò Mojo, che se ne stava seduto sulla neve. «Starai scherzando…» Che voce stridula aveva, del tutto priva di carattere. Erano moltissimi i suoni che mi giungevano e che avevano, per me, la caratteristica di essere metallici e deboli.

«No, è davvero il mio cane», risposi, vagamente offeso. «E lo amo molto.»

Rise. «Quel cane mangia qui tutte le sere: si presenta alla porta della cucina, sul retro, e…»

«Ah, splendido», la interruppi. «Almeno uno di noi mangerà. Sono contento di sentirlo, Mademoiselle. Forse dovrei presentarmi anch’io alla porta della cucina. Forse il cane mi lascerà qualcosa.»

La sua risata mi sembrò falsa e gelida. Era evidente che mi stava osservando, che guardava con interesse il mio viso e i miei vestiti. Cosa mai le sarò sembrato? Non lo sapevo. Il cappotto nero non era un capo d’abbigliamento dozzinale, però nemmeno elegante, e i miei capelli castani erano coperti di neve.

Dal canto suo, lei rivelava una sorta di sensualità, sebbene fosse tutta pelle e ossa: naso molto sottile, occhi finemente disegnati, una splendida struttura ossea.

«Va bene», disse infine. «Accomodati al bancone. Ti faccio portare qualcosa. Cosa vuoi?»

«Qualsiasi cosa… non m’importa. Ti ringrazio per la tua gentilezza.»

«Va bene, siediti.» Aprì la porta e, facendo un rapido gesto, gridò al cane: «Va’ sul retro!»

Mojo rimase seduto, immobile; era proprio una paziente montagna di pelo. Tornai fuori, nel vento gelido, e, indicando il vicolo sul lato, gli ordinai di andare alla porta della cucina. Mi lanciò un lungo sguardo, poi si alzò e s’incamminò, scomparendo lungo la stradina.

Rientrai nel locale, lieto di essere sfuggito al freddo per la seconda volta e rammaricandomi di avere le scarpe piene di neve sciolta. Avanzai nell’interno buio del ristorante, inciampando in uno sgabello che non avevo visto e che quasi mi fece cadere, dopodiché mi ci sedetti. Sul banco di legno era già stato apparecchiato un posto per me, con una tovaglietta blu, una forchetta e un coltello di acciaio pesante. La puzza di formaggio era soffocante e gli altri odori — cipolle cotte, aglio e grasso bruciato — erano tutti disgustosi.

Lo sgabello mi pareva assai scomodo. Il bordo rotondo e duro del sedile mi tagliava le gambe. Inoltre, ancora una volta, m’innervosiva il fatto di non riuscire a vedere nel buio. Il ristorante appariva molto lungo: forse era composto da varie sale, l’una dietro l’altra. Non riuscivo a vederlo per intero. Sentivo un rumore orribile, come se qualcuno stesse sbattendo contro una superficie metallica una serie di grandi pentole. Quel rumore mi faceva un po’ male alle orecchie… o forse m’irritava e basta.

La ragazza riapparve, sorridendo con grazia mentre posava davanti a me un grande bicchiere di vino rosso. L’odore era aspro e nauseante.

La ringraziai, quindi alzai il bicchiere e bevvi una sorsata di vino, trattenendolo in bocca e poi deglutendolo. Mi parve di soffocare all’istante. Non riuscivo a capire cos’era successo: avevo inghiottito in un modo sbagliato? La gola si era irritata per qualche motivo? Sapevo soltanto che tossivo furiosamente, e afferrai un tovagliolo di tessuto accanto alla forchetta per coprirmi la bocca. Un po’ del vino mi era finito addirittura nel naso. Per quanto riguardava il sapore, era vago e acidulo. Un terribile senso di frustrazione mi assalì.