Chiusi gli occhi e appoggiai la testa alla mano sinistra, che teneva il tovagliolo stretto a pugno.
«Tieni, prova ancora», disse lei. Aprii gli occhi. Stava riempiendo di nuovo il bicchiere da una grande caraffa.
«Grazie», replicai. Avevo sete, una sete tremenda. Ed era bastato il sapore del vino ad accrescerla. Quella volta, però, non avrei deglutito così in fretta. Alzai il bicchiere, presi una piccola sorsata, tentai di assaporarla, anche se non sembrava che ci fosse quasi nulla da assaporare, e poi deglutii: andò giù nel modo giusto. Era un vino leggero, molto leggero, così diverso da un appagante sorso di sangue. Dovevo prendere confidenza con quel sapore. Vuotai il bicchiere. Quindi sollevai la caraffa, lo riempii di nuovo e bevvi.
Per qualche istante, provai soltanto un senso di frustrazione. Poi, a poco a poco, cominciai ad avvertire un po’ di nausea. Il cibo arriverà, pensai. Ah, ma eccolo, il cibo: un cestino di grissini, o almeno così sembravano.
Ne presi uno, lo annusai per essere certo che si trattasse di pane, poi lo sgranocchiai molto rapidamente. Sabbia. Era proprio come la sabbia che mi era entrata in bocca nel deserto dei Gobi. «Come fanno i mortali a mangiare questa roba?» chiesi.
«Va’ più piano», disse la ragazza carina, lasciandosi andare a una piccola risata. «Tu non sei mortale? Da quale pianeta provieni?»
«Da Venere», risposi, sorridendole di nuovo. «II pianeta dell’amore.»
Di certo mi stava studiando e la mia risposta la fece arrossire. Le piccole guance pallide si colorirono un poco. «Perché non resti qui nei paraggi finché non stacco? Potresti accompagnarmi a casa.»
«Lo farò senz’altro», risposi. Poi, d’un tratto, colsi la portata della mia frase. Curioso, davvero curioso. Forse avrei potuto andare a letto con quella donna. Ah, sì, almeno per lei, quella era senza dubbio una possibilità. Il mio sguardo scivolò sui capezzoli, che premevano sulla seta nera del vestito in modo così allettante. Sì, portarla a letto, pensai. Ah, com’era levigata la carne del suo collo.
II membro mi si stava agitando tra le gambe. Be’, qualcosa funzionava, riflette!. Ma com’era curiosamente localizzata, quella sensazione: l’inturgidirsi del membro sembrò occupare, seppur in modo bizzarro, tutti i miei pensieri. Il bisogno di sangue, invece, non era mai localizzato. Puntai lo sguardo davanti a me, senza un’espressione particolare, e non lo abbassai neppure quando mi fu servito un piatto di spaghetti al sugo di carne. Una calda fragranza di formaggio sciolto, carne bruciata e grasso mi salì lungo le narici.
Sta’ giù, dicevo al mio membro, non è ancora ora. Infine abbassai gli occhi sul piatto. La fame mi tormentava. Mi sembrava che qualcuno mi stesse stringendo le viscere tra le mani, torcendole. Rammentavo una sensazione simile? Dio sa se avevo patito la fame, nel corso della mia vita mortale. La fame era come la vita stessa, ma il ricordo sembrava così lontano, così poco importante. Sollevai la forchetta, che a quell’epoca non avevo mai usato, dal momento che non esisteva: nel nostro rozzo mondo, c’erano soltanto i cucchiai e i coltelli. Conficcai la punta nel groviglio di spaghetti molli e ne portai una piccola quantità alla bocca.
Sapevo che era troppo calda già prima che toccasse la lingua, ma non mi fermai in tempo. Finii dunque per scottarmi e lasciai cadere la forchetta. Mi sto comportando come un autentico imbecille, pensai: doveva essere almeno la quindicesima volta che mi comportavo in modo così palesemente stupido. Come dovevo agire per avvicinarmi alle cose con maggiore intelligenza, calma e pazienza?
Rimasi seduto su quello sgabello scomodo, cercando di non cadere, e mi misi a riflettere.
Stavo cercando di far funzionare quel nuovo corpo, pieno di debolezze e di sensazioni poco comuni, come per esempio i piedi dolorosamente freddi e bagnati, nonché esposti allo spiffero che mi arrivava da qualche parte, e stavo facendo una serie di errori comprensibili ma alquanto stupidi. Avrei dovuto prendere gli stivali di gomma, e avrei dovuto trovare un telefono, chiamare il mio agente a Parigi prima di entrare in quel locale. Non stavo ragionando, insomma. Mi comportavo ostinatamente come se fossi un vampiro, mentre invece non lo ero.
Quel cibo fumante non mi avrebbe scottato, se io mi fossi trovato ancora nella mia pelle di vampiro, ovviamente. Ma io non ero in quel corpo. Ecco perché avrei dovuto prendere gli stivali di gomma. Usa la testa! mi ripetei.
Eppure com’era lontana l’esperienza che stavo vivendo da quella che mi ero immaginato. E parlavo di usare la testa! In realtà avevo pensato soltanto a divertirmi! Ah, avevo creduto che mi sarei ritrovato immerso in sensazioni, ricordi, scoperte… E adesso riuscivo a pensare soltanto come avrei potuto tenermi a freno.
La verità era che avevo immaginato vari piaceri, una varietà di delizie come mangiare, bere, andare a letto con una donna, poi con un uomo. Ma niente di quello che avevo sperimentato era stato neanche un po’ piacevole. Almeno fino a quel momento.
Bene, era mia la colpa di quella situazione vergognosa, e potevo cambiarla. Mi pulii la bocca col tovagliolo, un ruvido pezzo di stoffa sintetica, non più assorbente di quanto avrebbe potuto esserlo un pezzo di tela cerata, quindi presi il bicchiere di vino e lo vuotai ancora una volta. Un’ondata di nausea mi attraversò. La gola si contrasse e la testa prese a girare. Buon Dio, bastavano tre bicchieri per farmi ubriacare?
Ancora una volta, alzai la forchetta. La massa viscida e appiccicosa era più fredda, ormai. Me ne ficcai un po’ in bocca. Di nuovo, quasi soffocavo! La mia gola si serrò in modo convulso, come per impedire a quella cosa umidiccia di strangolarmi. Dovevo fare una pausa, respirare col naso, ripetermi che non era veleno, che io non ero un vampiro, e poi masticare quel pasticcio facendo attenzione a non mordermi la lingua.
Ma l’avevo già fatto prima, e quel pezzo di carne dolorante cominciò a farmi male. Un dolore molto più avvertibile del cibo mi riempiva la bocca. Ciò nonostante, continuai a masticare gli spaghetti e cominciai a riflettere su come fossero poco gustosi e salati, nonché sulla loro orribile consistenza. Quindi li inghiottii, provando di nuovo una stretta dolorosa alla gola e poi una sensazione di pesantezza al petto.
Se tutto quello stesse capitando a Louis, mi dissi, e se tu fossi te stesso, un vecchio vampiro presuntuoso seduto lì a osservarlo, be’, lo condanneresti per ogni sua azione e per ogni pensiero, lo detesteresti per la timidezza dimostrata e per aver sprecato quell’esperienza, oltre che per la generale incapacità di sentire.
Di nuovo, alzai la forchetta. Masticai un’altra boccata e la inghiottii. Bene, si avvertiva una specie di sapore. Ma non si trattava di quello delizioso e pungente del sangue. Erano molto più sciapi, quegli spaghetti, oltre a essere granulosi e appiccicaticci. Va bene, un’altra forchettata. Magari, prima o poi, mi sarebbe anche piaciuta, quella roba. Poteva anche darsi che non fosse buono, come cibo. Un’altra forchettata ancora.
«Ehi, piano», disse la ragazza carina. Si stava appoggiando contro di me, ma non riuscivo a sentire la sua densa morbidezza attraverso il cappotto. Mi girai e la guardai ancora negli occhi, ammirando le lunghe ciglia nere e ricurve e la bocca, che sembrava così dolce quando sorrideva. «Stai trangugiando la tua cena…»
«Lo so. Ho molta fame», replicai. «Ascoltami, so che ti sembrerò terribilmente ingrato. Ma non hai per caso qualcosa di diverso da questo grande ammasso coagulato? Sai, qualcosa di più consistente… Un po’ di carne, forse?»
Rise. «Sei davvero molto strano», disse. «Di dove sei? Davvero, intendo.»
«Vengo dalla campagna francese», risposi. «Va bene, ti porto qualcos’altro.»
Non appena se ne fu andata, bevvi un altro bicchiere di vino. Mi stava cominciando a girare la testa, ma sentivo anche un calore che, in un certo senso, era piacevole. D’un tratto mi venne anche voglia di ridere e mi resi conto di essere un po’ ubriaco.