Decisi di studiare gli altri umani che si trovavano nel locale. Sembrava così strano non riuscire a catturare i loro odori, così bizzarro non poter ascoltare i loro pensieri. Non riuscivo neppure a sentire le loro voci, ma solo un gran baccano. Ed era così singolare provare freddo e caldo nel contempo, con la testa che nuotava nell’aria surriscaldata e i piedi che gelavano per lo spiffero che s’insinuava lungo il pavimento.
La ragazza mi mise davanti un piatto di carne: vitello, così lo chiamò. Ne presi con le mani un pezzettino, il che sembrò stupirla, dal momento che avrei dovuto usare coltello e forchetta, e lo addentai. Lo trovai piuttosto insapore, come gli spaghetti, ma era meglio. Sembrava più pulito.
«Grazie, sei stata molto gentile con me», dissi poi. «Sei un tesoro e mi dispiace per le parole sgradevoli che ti ho rivolto prima, davvero.»
Lei sembrava affascinata, e io naturalmente stavo recitando un po’. Facevo finta di essere quello che non ero, e cioè una persona gentile.
Si allontanò: una coppia se ne stava andando e doveva saldare il conto. Io tornai alla mia cena, al mio primo pasto di sabbia, colla e pezzi di cuoio pieni di sale. Risi da solo. Ancora un po’ di vino. Era come non bere niente, pensai, tuttavia stava facendo effetto.
Lei tornò, portò via il piatto, e mi mise davanti un’altra caraffa di vino. E io rimasi seduto lì, con le mie scarpe e le calze bagnate, scomodo e infreddolito, sullo sgabello di legno, sforzandomi di vedere nel buio e ubriacandomi sempre più, finché lei non fu pronta per andare a casa.
La mia disinvoltura, rispetto all’inizio della serata, non era migliorata granché. Non appena mi alzai dallo sgabello, mi resi conto che riuscivo a malapena a camminare. Non sentivo più le gambe: dovetti guardare in basso per assicurarmi che ci fossero.
La ragazza carina trovava tutto molto divertente. Io non ne ero così sicuro. Mi aiutò a procedere lungo il marciapiede innevato, chiamando Mojo — in realtà si rivolse a lui chiamandolo «cane», seppure con grande deferenza —, e mi assicurò che abitava soltanto «a qualche passo da lì, lungo la strada». L’unico lato buono della situazione era che il freddo mi dava meno fastidio.
Avevo perso il mio equilibrio. Tutte le mie membra mi sembravano di piombo. Anche gli oggetti più brillanti e luminosi mi risultavano sfuocati. La testa mi doleva. Ero sicuro che sarei caduto. E, infatti, la paura di crollare a terra si stava trasformando in autentico panico.
Grazie al cielo arrivammo alla porta della casa. Lei mi fece strada lungo una stretta rampa di scale ricoperte di moquette. La salita mi lasciò così esausto che il cuore prese a battermi all’impazzata e il viso si ricoprì di sudore. Non riuscivo a vedere quasi nulla! Era una follia. Sentii lei che infilava la chiave nella porta.
Un nuovo, orribile puzzo assalì le mie narici. Il piccolo e triste appartamento sembrava un labirinto di cartone e legno compensato, con poster grossolani alle pareti. Ma cosa poteva essere quell’odore? Mi resi conto improvvisamente che proveniva dai suoi gatti, ai quali era permesso fare i bisogni in una scatola di sabbia, posta in un piccolo bagno la cui porta era aperta. Quando vidi la scatola, piena di escrementi di gatto, credetti che fosse davvero arrivata la fine: stavo per morire! Rimasi fermo, sforzandomi di non vomitare. Sentivo di nuovo un dolore lacerante allo stomaco, provocato però non dalla fame. La mia cintura, poi, mi sembrava terribilmente stretta.
Il dolore diventò più forte. Mi resi conto che dovevo accingermi a un compito simile a quello già assolto dai gatti. Anzi lo dovevo assolvere subito, se non volevo che finisse male. E dovevo entrare proprio in quella stanza. Il cuore mi salì in gola.
«Cosa c’è che non va?» chiese lei. «Ti senti male?»
«Posso usare quella stanza?» chiesi, gesticolando in direzione della porta aperta.
«È ovvio», rispose. «Fa’ pure.»
Passarono dieci minuti, o forse di più, prima che ne uscissi. Ero così disgustato da quel processo di eliminazione, dal suo odore, dalla sua vista e dalle sensazioni che mi aveva provocato, che non riuscivo a parlare. Ma era finito, era andata. Ormai rimaneva solo l’ubriachezza, l’indecorosa esperienza di allungare una mano — quella grossa mano scura — verso l’interruttore della luce e mancarlo, di premere il bottone e fare cilecca.
Trovai la camera da letto: era molto calda e stipata di mediocri mobili moderni in laminato scadente e dal design anonimo.
La giovane donna era nuda e seduta sul lato del letto. Tentai di metterla a fuoco, nonostante le distorsioni create dalla lampada vicina, ma il suo viso sembrava un’accozzaglia di brutte ombre e la sua pelle appariva giallastra. L’odore stantio del letto la circondava.
Tutto ciò che potevo dire di lei è che la trovavo assurdamente magra, come le donne tendono a essere nei tempi moderni. Le ossa delle costole s’intravedevano attraverso la pelle bianco latte, la minuscola dimensione dei seni e dei delicati capezzoli rosa era quasi bizzarra e i fianchi parevano inesistenti. Sembrava uno spettro. Eppure lei se ne stava lì e sorrideva, come se tutto fosse normale, coi capelli ondulati in modo grazioso e sciolti sulla schiena, mentre nascondeva con una mano la piccola ombra del pube.
Bene, ormai era chiaro quale fosse la meravigliosa esperienza umana che stava per presentarsi. Ma non riuscivo a provare nulla per lei. Nulla. Sorrisi, e cominciai a spogliarmi. Tolsi il cappotto e sentii subito freddo. Come mai lei non aveva freddo? Sfilai il maglione e il puzzo del mio sudore mi sconvolse. Ma era davvero così prima? mi chiesi. E dire che quel corpo mi era sembrato così pulito.
Lei non diede segno di accorgersene. E io gliene fui grato. Poi mi tolsi la camicia, le scarpe, le calze e i pantaloni. I miei piedi erano ancora gelidi. Anzi avevo freddo ed ero nudo, completamente nudo. Non sapevo dire se mi piacesse o no. D’un tratto mi vidi riflesso nello specchio sopra il tavolino da toilette e mi resi conto che il mio membro era… ubriaco e addormentato.
Ancora una volta, lei non sembrò sorpresa.
«Vieni qui», disse. «Siediti.»
Obbedii. Tremavo. Poi cominciai a tossire. Il primo colpo di tosse fu uno spasmo che mi colse di sorpresa. Poi seguì tutta una serie di colpi di tosse incontrollabili e l’ultimo fu così violento da provocarmi un cerchio di dolore intorno alle costole. «Mi dispiace», le dissi.
«Adoro il tuo accento francese», sussurrò. Mi accarezzò i capelli e lasciai che le sue unghie mi graffiassero leggermente la guancia.
Be’, quella era una sensazione piacevole. Piegai la testa e la baciai sul collo. Sì, anche quello non era male. Non era proprio così eccitante come avventarsi su una vittima, comunque era gradevole. Tentai di ricordare com’era stato duecento anni prima, quand’ero il terrore delle ragazze del villaggio. Al portone del castello — almeno così mi dicevano — si presentavano spesso dei contadini che, imprecando e agitando i pugni contro di me, mi minacciavano: se avessi messo incinta una delle loro figlie, avrei dovuto risponderne. Era sembrato tutto così meraviglioso e divertente all’epoca. E le ragazze, ah, le belle ragazze…
«Che c’è?» chiese lei.
«Niente», risposi. E la baciai di nuovo sul collo. Potevo sentire anche il suo sudore. Non mi piaceva. Ma perché? Nessuno di quegli odori era così forte come mi sembrava quand’ero nell’altro corpo. Però si collegavano al corpo in cui mi trovavo in quel momento: ecco qual era la cosa brutta. Non avevo protezioni contro di loro: non sembravano artefatti, eppure — lo sentivo — avrebbero potuto invadermi e contaminarmi. Per esempio, il sudore del suo collo si trovava sulle mie labbra. Io lo sapevo, potevo avvertirne il sapore e desideravo essere lontano da lei.
Ah, ma quella era una follia. Lei era un essere umano come lo ero io. Grazie a Dio, per venerdì tutto ciò sarebbe finito. Ma che diritto avevo io di ringraziare Dio?