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I suoi capezzoli sfioravano il mio petto, e parevano molto caldi e nodosi sulla carne tenera e molle. Feci scivolare il braccio intorno alla sua schiena minuta.

«Sei caldo, credo che tu abbia la febbre», mi disse nell’orecchio. Mi baciò sul collo come io avevo baciato lei.

«No, sto bene», le risposi. Ma non avevo la più pallida idea se fosse vero o no. Ah, che faccenda spinosa!

D’un tratto la sua mano toccò il mio membro, facendomi sussultare. L’eccitazione fu immediata. Lo avvertii allungarsi e indurirsi. La sensazione era completamente concentrata, eppure mi sentivo elettrizzato. Quando mi voltai a guardare il suo seno e il piccolo triangolo scuro tra le sue gambe, il mio membro diventò ancora più duro. Sì, me lo ricordo bene: per i miei occhi esisteva solo quello, e nient’altro in quel momento aveva importanza. Mmm… Be’, stendiamola sul letto.

«Uau!» sussurrò. «Questo sì, che è un bell’attrezzo!» «Davvero?» Abbassai lo sguardo. La cosa mostruosa aveva raddoppiato le sue dimensioni.

Sembrava grossolanamente sproporzionato a tutto il resto. «Sì, suppongo che lo sia. Avrei dovuto sapere che James lo avrebbe verificato.»

«Chi è James?»

«Non ha importanza», borbottai. Girai il suo viso verso il mio e baciai la sua piccola bocca umida, incontrando i suoi denti attraverso le labbra sottili, che lei aprì per ricevere la mia lingua. Quello era piacevole, anche se la sua bocca aveva un cattivo sapore. Pazienza. Ma poi il mio pensiero corse al sangue. Pensai a bere il suo sangue.

Dov’era finita l’intensità pulsante dell’avvicinamento a una vittima, dell’istante precedente a quello in cui i miei denti affondavano nella pelle e il sangue mi sgorgava sulla lingua?

No, non sarebbe stato così facile né così struggente. Si sarebbe trattato più che altro di un fremito tra le gambe. Ma che fremito!

Il semplice pensiero del sangue aveva accresciuto la passione. La spinsi brutalmente sul letto. Volevo farla finita. Nient’altro contava.

«Aspetta un attimo», mormorò lei.

«Aspettare cosa?» Le montai sopra e la baciai di nuovo, spingendo la mia lingua ancora di più dentro di lei. Niente sangue. Ah, com’era tutto così scialbo. Niente sangue. Il mio membro scivolò tra le sue cosce calde e per poco quasi non venni. Ma non era abbastanza.

«Ho detto aspetta!» gridò, mentre le sue guance si arrossavano. «Non puoi farlo senza un preservativo.»

«Che accidenti stai dicendo?» mormorai. Conoscevo il significato di quelle parole, eppure, in quel frangente, non sembravano avere molto senso. Spinsi in basso la mano, sentii l’apertura irsuta e poi la fessura bagnata e vischiosa, che sembrava deliziosamente piccola.

Mi urlò di togliermi, spingendomi via col palmo delle mani. Era molto arrossata e, d’un tratto, mi apparve assai bella nella rabbia e nella foga. Quando mi respinse col ginocchio, mi gettai su di lei, poi mi ritirai quel tanto che bastava per conficcarle dentro il membro e sentire quel dolce, caldo e stretto involucro di carne richiudersi intorno a me, mentre il mio respiro si faceva affannoso.

«Non farlo! Fermati! Ti ho detto di fermarti!» gridò.

Ma io non riuscivo ad aspettare oltre. Cosa le faceva pensare che quello fosse il momento per discutere di una cosa simile? mi domandai in modo vago e confuso. Poi, in un momento di eccitazione accecante e spasmodica, venni. Lo sperma uscì con violenza dal mio membro!

Ci fu un istante di eternità e un attimo dopo era tutto finito, come se non fosse mai iniziato. Giacevo esausto sopra di lei, madido di sudore, e un po’ infastidito dalla vischiosità dell’intera faccenda, oltre che dalle sue grida di panico.

Infine ricaddi sulla schiena. La testa mi doleva e tutti i cattivi odori della stanza si erano fatti più penetranti, da quello nauseante dei gatti a quello fetido del letto stesso, col materasso pieno di cedimenti e protuberanze.

Balzò giù dal letto. Sembrava impazzita: piangeva e tremava. Afferrò una coperta dalla sedia e si coprì, e cominciò a urlarmi di andare via, andare via, andare via.

«Si può sapere che hai?» chiesi.

Proruppe in una raffica d’imprecazioni moderne: «Buono a nulla, stupido, miserabile, idiota, cretino!» e cose del genere. Potevo averle trasmesso qualche malattia, strillò, snocciolando poi diversi nomi. Potevo averla messa incinta. Ero un viscido, una testa di cazzo, un imbecille! Dovevo andarmene alla svelta. Come avevo osato comportarmi così? Dovevo andarmene subito, altrimenti avrebbe chiamato la polizia.

Un’ondata di sonnolenza mi colpì. Tentai di mettere la donna a fuoco, nonostante il buio. Poi mi assalì una nausea improvvisa e più acuta di quanto avessi mai provato. Lottai per tenerla sotto controllo e solo grazie a un’estrema forza di volontà riuscii a non vomitare seduta stante.

Mi misi seduto e infine mi alzai. Abbassai lo sguardo sulla donna che se ne stava lì, a piangere e a urlare contro di me, e d’un tratto mi accorsi che era infelice, che le avevo fatto davvero del male e che aveva anche una brutta contusione al viso.

A poco a poco compresi che cos’era successo. Mi aveva chiesto di usare una qualche forma di profilattico, e io l’avevo, in pratica, violentata. Per lei non c’era stato piacere, ma soltanto paura. La rividi nel momento del mio orgasmo, mentre lottava contro di me, e mi resi conto che era del tutto inconcepibile per lei che io avessi provato godimento nell’averla soggiogata mentre lei lottava, in preda all’ira e alla paura. Tuttavia, in qualche modo rozzo e meschino, era andata proprio così.

L’intera cosa mi sembrò insopportabilmente triste e mi riempì di disperazione. Il piacere stesso non era stato niente! Non posso tollerarlo, pensai, neanche per un momento di più. Se avessi potuto raggiungere James, gli avrei offerto un’altra somma folle per tornare subito indietro. Raggiungere James… Avevo dimenticato che dovevo trovare un telefono.

«Ascoltami, ma chère», le dissi. «Mi dispiace tanto. È che le cose sono andate storte, ecco tutto. Lo so e mi dispiace.»

Fece per darmi uno schiaffo, ma io le afferrai con facilità il polso e le abbassai la mano, facendole anche un po’ male. «Vattene», ripeté. «Vattene oppure chiamo la polizia.» «Capisco quello che mi stai dicendo. È passata un’eternità dall’ultima volta che l’ho fatto. Sono stato maldestro. Sono stato scorretto.»

«Tu sei stato peggio che scorretto!» replicò con una voce profonda e dolente.

E mi schiaffeggiò davvero. Non fui abbastanza veloce. La potenza dello schiaffo e il dolore acuto che mi provocò mi sorpresero. Ne avvertivo il leggero fastidio nella zona del viso in cui mi aveva colpito. Era un dolore seccante.

«Vattene !» urlò di nuovo.

Mi vestii, ma era come sollevare sacchi di mattoni. Un cupo senso di vergogna mi aveva invaso. Ogni minimo gesto e ogni singola parola mi procuravano un tale disagio e imbarazzo da farmi desiderare di sprofondare sottoterra.

Finii di chiudere i bottoni e le cerniere, mi rimisi ai piedi quelle fastidiose calze bagnate e le scarpe sottili, e fui pronto ad andarmene.

Lei se ne stava seduta sul letto, a piangere. Le sue spalle erano molto magre, le ossa fragili della schiena sporgevano sotto la carne bianchissima e i capelli le ricadevano in folte ciocche ondulate sulla coperta che teneva stretta al petto. Sembrava debolissima, oltre che decisamente priva di qualsiasi bellezza. Anzi era proprio ripugnante.

Tentai di guardarla con gli occhi di Lestat. Ma non ci riuscii. Mi apparve una cosa ordinaria, senza il minimo valore, incapace di suscitare anche un vago interesse. Ero inorridito. Era stato così, nel villaggio della mia giovinezza? Tentai di ricordare quelle ragazze, donne morte e sepolte da secoli, ma non riuscii a vedere le loro facce. Ciò che mi tornava alla mente erano le ragazzate, la felicità, la grande esuberanza che, a periodi alterni, mi aveva fatto scordare le privazioni e la disperazione.