Che cosa poteva significare tutto ciò in quel momento? Come poteva quell’esperienza essere così spiacevole, così priva di significato, almeno in apparenza? Se fossi stato me stesso, avrei trovato quella donna interessante come poteva esserlo un insetto; anche le piccole stanze in cui viveva mi sarebbero sembrate curiose, nei loro peggiori e più prosaici dettagli! Ah, sentivo sempre una certa simpatia per le tristi e minuscole dimore mortali. Ma perché era così?
E lei, quel povero essere, mi sarebbe apparsa bella soltanto perché era viva! Non mi sarei potuto insudiciare se mi ci fossi nutrito per un’ora. Per come stavano le cose, mi sentivo sporco per essere stato con lei e per la crudeltà che le avevo dimostrato. Compresi la sua paura di ammalarsi… Anch’io mi sentivo contaminato! Ma da che parte stava la verità?
«Mi dispiace tanto», dissi di nuovo. «Mi devi credere. Non era ciò che volevo. Non lo so, che cosa volevo.»
«Tu sei pazzo», sussurrò senza alzare lo sguardo.
«Una delle prossime sere verrò da te, e ti porterò un regalo, qualcosa di bello che desideri davvero. Te lo darò e forse tu mi perdonerai.»
Lei non replicò.
«Dimmi: cos’è che desideri davvero? Il denaro non è importante, per me. Cosa c’è che vuoi e che non puoi avere?»
Alzò lo sguardo con astio: il suo viso era chiazzato, gonfio e rosso. Poi si asciugò il naso col dorso della mano. «Tu lo sai, quello che volevo», rispose con una voce aspra e sgradevole, quasi asessuata tanto era bassa.
«No, non lo so. Dimmelo tu.»
Aveva il viso alterato e la voce era così strana che mi spaventò. Risentivo ancora del vino che avevo bevuto, eppure i miei pensieri non erano quelli di un ubriaco. Sembrava una situazione divertente: il corpo era ubriaco; io invece no.
«Chi sei?» chiese. Il suo tono era molto duro, duro e amaro. «Sei qualcuno, non è vero… Non sei soltanto…» Ma la voce le venne meno.
«Se te lo dicessi, non mi crederesti.»
Girò la testa ancor più di lato, studiandomi come se le stesse diventando improvvisamente tutto chiaro. Lo aveva capito. Non riuscii a immaginare quello che le stava passando per la testa. Sapevo solo che ero dispiaciuto per lei, e che lei non mi piaceva. Non mi piaceva quella stanza sporca e disordinata, col suo basso soffitto d’intonaco, e neppure il letto sudicio, il brutto tappeto marroncino, la luce fioca, la scatola dei gatti che puzzava nell’altra stanza.
«Mi ricorderò di te», dissi in tono sconfortato, ma dolce. «Ti sorprenderò. Tornerò e ti porterò qualcosa di meraviglioso, qualcosa che non avresti mai potuto comprare. Un regalo… da un altro mondo. Ma ora ti devo proprio lasciare.»
«Sì, è meglio che tu vada.»
Mi voltai, avviandomi. Pensai al freddo all’esterno, a Mojo che aspettava sul pianerottolo, alla villetta con la porta sul retro fracassata e scardinata, e al fatto che mi ritrovassi senza telefono e senza un soldo. Già, il telefono.
Lei aveva un telefono. L’avevo visto sulla credenza. Mentre mi giravo per avvicinarmi all’apparecchio, lei prese a inveire contro di me, lanciandomi pure qualcosa addosso. Credo che fosse una scarpa. Mi colpì la spalla, ma non mi provocò dolore. Alzai la cornetta e chiamai, a carico del destinatario, il mio agente a New York.
Il telefono suonò a lungo. Non rispondeva nessuno. Neanche la segreteria telefonica. Molto strano. E dannatamente seccante. Vedevo la donna riflessa nello specchio: mi fissava, chiusa in un silenzioso e rigido risentimento, avvolta nella sua coperta come in un moderno abito dalla linea morbida. Com’era patetico tutto quello. Lo era fin nei più minuti dettagli.
Chiamai Parigi. Il telefono suonò a vuoto per un po’, infine una voce familiare rispose: era il mio agente e io l’avevo svegliato. Gli spiegai in francese che mi trovavo a Georgetown, che avevo bisogno di ventimila dollari, anzi che era meglio mandarmene trentamila, e che mi servivano subito.
Lui bofonchiò che a Parigi era appena l’alba. Doveva aspettare che le banche aprissero, ma avrebbe inviato il denaro non appena possibile. Avrei potuto riceverlo anche verso mezzogiorno, ora di Georgetown. Memorizzai il nome dell’agenzia presso la quale lo avrei riscosso e implorai l’agente di fare presto, e di stare molto attento a non commettere errori. Si trattava di un’emergenza: ero senza un soldo e avevo vari obblighi da rispettare. Mi rassicurò, dicendomi che si sarebbe occupato di tutto subito. Riagganciai.
Lei mi stava fissando. Non credo che avesse capito la telefonata. Non parlava francese.
«Mi ricorderò di te», dissi. «Ti prego, perdonami. Ora me ne vado. Ti ho già procurato abbastanza guai.»
Non rispose. La guardai fisso, tentando per l’ultima volta di spiegarmi il motivo per cui mi sembrava così grossolana e poco interessante. Da quale punto di vista l’esistenza, prima, mi era sembrata tutta così bella e tutte le creature mi erano apparse semplici variazioni dello stesso, magnifico tema? Persino James aveva mostrato una bellezza orribile e scintillante come una grande Periplaneta americana o una mosca.
«Addio, ma chère», mormorai. «Mi dispiace molto. Mi dispiace davvero.»
Trovai Mojo seduto fuori dell’appartamento: gli passai davanti in fretta, schioccando le dita perché mi seguisse. E così fece. Scendemmo le scale e uscimmo nella notte fredda.
Nonostante il vento che soffiava nella cucina, insinuandosi nelle fessure della porta della sala da pranzo, le altre stanze della villetta erano ancora abbastanza calde. Una corrente di aria riscaldata arrivava da piccole grate di ottone nel pavimento. Com’era stato gentile, James, a non avere spento il riscaldamento, pensai. D’altra parte intendeva lasciare quel posto non appena fosse entrato in possesso dei venti milioni: il conto non sarebbe mai stato pagato.
Salii al piano di sopra e, passando dalla camera principale, raggiunsi il bagno. Era una piacevole stanza con piastrelle bianche, specchi puliti e una grande cabina doccia con splendenti porte in vetro. Provai l’acqua: scendeva forte ed era calda, una delizia. Mi spogliai di tutti i vestiti umidi e maleodoranti, lasciando le calze sulla grata del riscaldamento e piegando ordinatamente la maglia perché era l’unica che avevo, poi rimasi sotto la doccia per un bel pezzo.
Con la testa appoggiata all’indietro, contro le piastrelle, avrei potuto davvero addormentarmi in piedi. Invece cominciai a piangere e poi, in modo altrettanto involontario, a tossire. Sentii un bruciore intenso al petto, come in fondo al naso.
Infine uscii, mi asciugai e guardai di nuovo il corpo riflesso nello specchio. Non riuscii a vedere cicatrici o imperfezioni. Le braccia erano forti, ma con una muscolatura allungata, come quella del petto. Le gambe apparivano ben modellate. Il viso risultava davvero bello e la pelle scura quasi perfetta, benché non vi fosse rimasta traccia dell’adolescenza. Era decisamente il volto di un uomo: rettangolare, un po’ duro, ma gradevole, molto gradevole, forse grazie agli occhi grandi. Era anche un po’ ruvido. La barba stava crescendo. Bisognava radersi. Che seccatura.
«Eppure dovrebbe essere splendido», dissi ad alta voce. «Possiedi il corpo di un maschio di ventisei anni in condizioni perfette. Tuttavia è stato un incubo. Hai commesso uno stupido errore dopo l’altro. Perché non riesci ad affrontare questa sfida? Dove sono la tua volontà e la tua forza?»
Mi sentivo intirizzito. Mojo si era addormentato sul pavimento in fondo al letto. Farò così anch’io, pensai: dormirò. Dormirò come un mortale e, al mio risveglio, la luce del giorno entrerà in questa stanza. Perfino se il ciclo fosse grigio, sarà meravigliosa. Sarà giorno. Vedrai il mondo di giorno come hai tanto desiderato in tutti questi anni, mi dissi. Dimentica tutta questa impervia fatica, dimentica le banalità e la paura.