Ma un sospetto terribile mi stava assalendo: forse che la mia vita mortale non era stata altro che fatica, banalità e paura? Non era così per la maggior parte dei mortali? Non era forse quello il messaggio lasciato da molti scrittori e poeti moderni, e cioè che la vita si spreca in sciocche preoccupazioni? Non era forse tutto ciò un avvilente cliché?
Mi sentivo amaramente turbato. Tentai di ragionare con me stesso ancora una volta, come avevo fatto per tutto il tempo. Ma a cosa serviva?
Era una sensazione terribile, trovarsi dentro quell’inerte corpo umano! Lo era altrettanto ritrovarsi privato dei poteri soprannaturali. E il mondo era squallido e meschino, dai contorni indistinti e pieno d’incidenti. Insomma, non riuscivo nemmeno a vederne la maggior parte. E di quale mondo, poi?
Ma domani è un altro giorno! Oh, Signore, un altro avvilente cliché! Cominciai a ridere e mi prese un altro attacco di tosse. Sentii il dolore nella gola, piuttosto forte, e gli occhi mi lacrimavano. Meglio dormire, riposare e prepararsi per il mio unico e prezioso giorno.
Spensi la lampada e alzai le coperte del letto: era pulito. Ne fui lieto. Adagiai la testa sul cuscino di piuma, raccolsi le ginocchia al petto, mi tirai le coperte fino al mento e mi addormentai. Ero vagamente consapevole del fatto che, se la casa fosse bruciata o se i fumi del gas fossero usciti dalle griglie della caldaia, io sarei morto. Qualcuno poteva entrare dalla porta sul retro e uccidermi. Invero, ogni genere di disastro era possibile. Ma c’era Mojo, no? E io ero stanco, così stanco!
Qualche ora dopo mi svegliai.
Stavo tossendo con violenza e sentivo un freddo tremendo. Avevo bisogno di un fazzoletto: trovai una scatola di fazzolettini di carta che facevano al caso mio e mi soffiai il naso forse cento volte. Poi, riuscendo a respirare di nuovo, ricaddi in uno stato di strana spossatezza febbrile e mi feci prendere da un’ingannevole sensazione di stare galleggiando, mentre invece giacevo sul letto.
È solo un raffreddore mortale, pensai. Il risultato di essermi esposto al gelo. Guasterà le cose, ma è un’esperienza anche questa, un’esperienza che devo analizzare.
Quando mi svegliai di nuovo, il cane era accanto al letto e mi stava leccando il viso. Allungai la mano, sentii il suo muso peloso e risi, poi tossii di nuovo, con la gola che mi bruciava, e mi resi conto che era un po’ di tempo che stavo tossendo.
La luce era terribilmente forte. Meravigliosamente forte. Grazie a Dio, infine una lampada luminosa in questo mondo lugubre. Mi misi a sedere. Per un attimo, fui troppo stordito per riconoscere ciò che vedevo.
Il ciclo che appariva nella parte alta delle finestre era di un azzurro vibrante, e la luce del sole si riversava sul pavimento lucido. Tutto il mondo sembrava trionfare in quella brillantezza: i rami spogli degli alberi dai profili imbiancati, il tetto di fronte ricoperto di neve, la stanza stessa, piena di candore e di colori vivaci, con la luce che rimbalzava sullo specchio, sul vetro di cristallo della toilette, sul pomolo di ottone della porta del bagno.
«Mon Dieu, guarda, Mojo», sussurrai, buttando indietro le coperte e correndo ad aprire la finestra. L’aria fredda mi colpì, ma cosa importava? Guardavo il colore profondo del ciclo, guardavo le alte nuvole bianche che viaggiavano verso ovest, guardavo il bel verde rigoglioso dell’alto pino nel cortile vicino!
Improvvisamente mi ritrovai a piangere senza controllo e poi di nuovo a tossire.
«Questo è un miracolo», mormorai. Mojo mi diede un colpetto, emettendo un gemito acuto. I dolori e le sofferenze mortali non avevano importanza. Quella era la promessa biblica che da duecento anni aspettava di essere esaudita.
12
Quando uscii dalla villetta per andare a fare due passi nella gloriosa luce del giorno, sapevo che quell’esperienza mi avrebbe ripagato di tutte le prove e di tutto il dolore. E nessuna infreddatura mortale, con tutti i suoi sintomi debilitanti, mi avrebbe impedito di spassarmela nel sole mattutino.
Non aveva importanza che la mia debolezza fisica mi stesse facendo impazzire, che mi sembrasse di essere di pietra, mentre procedevo a fatica insieme con Mojo, che non riuscissi a fare neppure un piccolo salto se ci provavo, che mi richiedesse uno sforzo colossale spingere la porta della macelleria per aprirla, o che il mio raffreddore fosse in continuo peggioramento.
Una volta che Mojo ebbe divorato la sua colazione di frattaglie elemosinata al macellaio, ce ne andammo in giro a divertirci nella luce. E sentii che stavo per ubriacarmi alla vista dei raggi del sole che ricadevano sulle finestre e sui marciapiedi bagnati, sui tettucci luccicanti delle auto dai colori brillanti, sulle pozzanghere cristalline in cui si era disciolta la neve, sulle vetrine dei negozi, e sulla gente, migliaia e migliaia di persone felici, che si apprestavano ad assolvere gli impegni della giornata.
Quelle persone apparivano molto diverse dal popolo della notte. Era ovvio che, nella luce del giorno, si sentivano al sicuro: camminavano e parlavano senza osservare particolari cautele, e mandavano avanti le diverse attività del giorno con una tale energia difficilmente riscontrabile dopo il tramonto.
Ah, vedere le madri indaffarate, coi loro raggianti pargoli al seguito, che pigiano la frutta nelle sporte; guardare i grandi e rumorosi camion adibiti alle consegne parcheggiare nelle strade ricoperte di fanghiglia, mentre uomini robusti trascinano scatoloni e casse di merci verso le porte sul retro degli edifici! E poi ancora osservare gli uomini spalare la neve e ripulire le finestre, oppure ammirare i bar stipati di creature che s’intrattengono piacevolmente, consumando grandi quantità di caffè e fragranti colazioni, mentre leggono con attenzione i quotidiani, s’innervosiscono per il tempo o discutono il lavoro del giorno. Era incantevole contemplare le bande di scolari in linde uniformi sfidare il vento gelido per organizzare i loro giochi in un cortile d’asfalto bagnato dal sole.
Un deciso ottimismo carico di energia legava tutti questi esseri. Lo si percepiva negli studenti che si affrettavano fra gli edifici del campus universitario, o che si raccoglievano per il pranzo nei ristoranti piccoli e caldi.
Come fiori che si schiudono alla luce, quegli umani acceleravano il passo e le parole. E, quando sentii il calore stesso del sole sul viso e sulle mani, anch’io sbocciai, come se fossi stato un fiore. Potei sentire la reazione chimica del mio corpo mortale, nonostante la pesantezza alla testa e il dolore fastidioso alle mani e ai piedi congelati.
Ignorando la tosse, che peggiorava di ora in ora, e un nuovo disturbo che mi annebbiava la vista, un’autentica seccatura, portai Mojo con me lungo la rumorosa M Street fino a Washington, la vera capitale del Paese. Presi ad aggirarmi tra i monumenti e i memoriali, tra gli edifici ufficiali e le vaste e impressionanti residenze e mi spinsi fino al cimitero di Arlington, così malinconicamente bello, con le sue migliaia di piccole lapidi identiche, e alla residenza del grande generale Robert E. Lee.
In quel momento deliravo. E, con ogni probabilità, il malessere fisico si combinò con la felicità, dandomi un atteggiamento indolente e febbricitante piuttosto simile a quello di una persona sotto l’effetto dell’alcol o degli stupefacenti. Non saprei. So soltanto che ero felice, molto felice, e che il mondo della luce non era il mondo dell’oscurità.
Moltissimi turisti affrontavano, come me, il freddo per visitare i monumenti famosi. Mi compiacevo in silenzio del loro entusiasmo, rendendomi conto che tutti quegli esseri erano colpiti dalle prospettive ampie, aperte, della capitale proprio come me. Era meraviglioso osservare come gioissero e si trasformassero alla vista del grande cielo azzurro e delle numerose, spettacolari testimonianze in pietra innalzate per celebrare le imprese del genere umano.