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«Io sono uno di loro!» dissi, comprendendolo all’improvviso. «Non sono Caino all’eterna ricerca del sangue di suo fratello.» Mi guardai intorno, stupefatto. «Sono uno di voi!»

Per un lungo istante rimasi a fissare la città da Arlington, tremando dal freddo, e anche piangendo un poco davanti a quello spettacolo straordinario, così rappresentativo dei princìpi della grande Età della Ragione. Desiderai che Louis e David fossero lì con me, ma quel pensiero mi rattristò nel profondo del cuore, perché loro avrebbero senza dubbio disapprovato quello che avevo fatto.

Oh, ma era quello che stavo vedendo, il vero pianeta, la terra vivente nata dal calore e dalla luce del sole, per quanto sotto un mantello scintillante di neve invernale.

Alla fine scesi dalla collina. Mojo di tanto in tanto correva avanti e poi ritornava per accompagnarmi, mentre io camminavo lungo il Potomac ghiacciato, ammirando il sole riflesso nel ghiaccio e nella neve che si stava sciogliendo. Era divertente persino guardare la neve che si liquefaceva.

Verso metà mattina, capitai di nuovo nei pressi dell’imponente Jefferson Memorial, un elegante e spazioso padiglione in stile greco con parole molto solenni e toccanti scolpite sulle pareti. Il mio cuore stava per scoppiare quando mi resi conto che, in quelle ore preziose, io non ero affatto estraneo ai sentimenti espressi in quel luogo. E, in effetti, durante quel breve periodo, ero assolutamente mescolato alla folla degli umani e, in pratica, passavo inosservato.

Ah, che menzogna! Io portavo la mia colpa dentro di me: nel flusso della mia memoria, nella mia singola anima irriducibile. Lestat l’assassino, Lestat il predatore della notte. Pensavo all’ammonimento di Louis: «Tu non puoi diventare umano semplicemente appropriandoti di un corpo!» Rividi l’espressione tragica e provata del suo volto.

Ma, buon Dio, e se il vampiro Lestat non fosse mai esistito, se si fosse trattato solo di una creazione letteraria, della pura invenzione dell’uomo nel cui corpo io vivevo e respiravo! Che idea meravigliosa!

Rimasi a lungo sui gradini del Jefferson Memorial, a capo chino, mentre il vento sembrava fare di tutto per strapparmi i vestiti. Una donna gentile mi disse che ero ammalato e che dovevo abbottonarmi il cappotto. La fissai negli occhi: quello che vedeva davanti a sé era soltanto un giovane uomo. Non era né impressionata né impaurita. La fame non era in agguato dentro di me, spronandomi a porre fine alla sua vita affinché io potessi godere meglio della mia. Povera, adorabile creatura dagli occhi azzurro pallido e dai capelli scoloriti! Presi la sua piccola mano rugosa e la baciai, dicendole in francese che l’amavo, e vidi il suo volto avvizzito aprirsi in un sorriso. Come mi appariva soave, incantevole: nessuno degli umani che io avevo fissato coi miei occhi da vampiro mi era sembrato tale!

Tutto il sordido squallore della notte precedente svanì durante il giorno. Credo che i miei più grandi sogni in merito a quella avventura fossero stati esauditi.

Ma l’inverno che mi circondava era duro, pesante. Sebbene rallegrate dal ciclo azzurro, le persone parlavano tra loro di una bufera in arrivo. I negozi avrebbero chiuso prima, le strade sarebbero state di nuovo impraticabili e sarebbe stato necessario chiudere l’aeroporto. Alcuni passanti mi raccomandarono di dormire con le candele accanto al letto, perché la città poteva rimanere senza corrente elettrica. E un vecchio signore, con un berretto di lana spessa ben calcato in testa, mi rimproverò perché non portavo un cappello. Una ragazza mi disse che sembravo malato e che sarei dovuto correre a casa.

È solo un raffreddore, risposi. Mi bastava prendere un buon tonico, o comunque lo chiamino. Raglan James avrebbe saputo cosa fare, nel momento in cui avesse riscattato quel corpo. Non ne sarebbe stato troppo felice, ma si sarebbe consolato coi suoi venti milioni. Inoltre, avevo ancora varie ore a disposizione per curarmi coi rimedi in commercio e per riposare.

Per il momento, mi sentivo troppo oppresso da un senso di disagio per preoccuparmi di una cosa del genere. Avevo perso già troppo tempo con quelle piccole distrazioni. E, ovviamente, un rimedio per tutte le piccole seccature della vita (ah, la vita reale!) era a portata di mano.

In effetti, avevo smarrito la nozione del tempo… Di certo il mio denaro era già arrivato all’agenzia ed era lì ad aspettarmi. Diedi un’occhiata all’orologio nella vetrina di un negozio: le due e mezzo. Lo stesso indicava il grosso orologio a buon mercato che portavo al polso. Be’, mi rimanevano più o meno tredici ore. Tredici ore in quel terribile corpo, con la testa che mi pulsava e gli arti che mi dolevano! La mia felicità svanì, sostituita da un improvviso brivido di paura. Oh, ma era una giornata troppo bella per essere rovinata dalla vigliaccheria! Scacciai quei pensieri.

Mi erano tornati alla memoria alcuni versi… e, di tanto in tanto, ricordi molto vaghi di quell’ultimo inverno mortale, di quando mi accoccolavo accanto al focolare nella sala della casa di mio padre, del tentativo disperato di scaldarmi le mani vicino a un fuoco che andava spegnendosi. Ma, in generale, ero stato assorbito dal «presente» in un modo che era del tutto sconosciuto alla mia piccola mente maliziosa, febbrile e calcolatrice. Ero rimasto così ammaliato da ciò che stava accadendo intorno a me, che per ore non avevo avuto né preoccupazioni né distrazioni.

Quello era straordinario, davvero straordinario. E, nella mia euforia, ero certo che avrei portato con me per sempre il ricordo di quella semplice giornata.

Il ritorno a Georgetown sembrava un’impresa impossibile. Il ciclo aveva iniziato a rannuvolarsi ancor prima che mi allontanassi dal Jefferson Memorial, e stava assumendo in breve tempo il colore della latta opaca. La luce si stava prosciugando, come se fosse stata liquida.

Eppure amavo anche quelle malinconiche manifestazioni della vita. M’incantavo a guardare i mortali ansiosi che riparavano con le saracinesche le vetrine dei negozi, le persone che si affrettavano controvento coi sacchetti della spesa, i fari accesi che lampeggiavano, rianimando il buio sempre più cupo.

Mi resi conto che non ci sarebbe stato tramonto. Ah, davvero molto triste. Ma come vampiro spesso scorgevo il crepuscolo. Allora perché lamentarsi? Per un istante, mi rammaricai di aver trascorso il mio tempo prezioso tra le gelide grinfie dell’inverno. Ma, per ragioni che riuscivo a stento a spiegare a me stesso, era stato proprio come volevo. Un inverno rigido come gli inverni della mia infanzia. Rigido come quello di Parigi, allorché Magnus mi aveva portato nella sua tana. Ero soddisfatto. Ero contento.

Quando raggiunsi l’agenzia, sapevo bene che la febbre e i brividi stavano avendo la meglio su di me, e che dovevo trovare da mangiare, nonché un luogo dove rifugiarmi. Fui felice di scoprire che il mio denaro era arrivato. Mi era stata preparata una nuova carta di credito a nome di uno dei miei pseudonimi parigini, Lionel Potter, oltre a una serie di traveller’s cheques. Mi ficcai tutto nelle tasche e, sotto gli occhi stupefatti dell’impiegato che mi guardava in silenzio, vi cacciai anche i trentamila dollari.

«La rapineranno!» sussurrò lui, sporgendosi verso di me attraverso lo sportello. Disse qualcosa — facevo fatica a seguirlo — sul fatto di andare in banca col denaro prima che la banca stessa chiudesse. Aggiunse poi che dovevo recarmi al pronto soccorso, immediatamente, prima che sopraggiungesse la tormenta, che là fuori c’erano molte persone con l’influenza, e che ogni inverno sembrava portare un’epidemia.

Per quieto vivere mi dichiarai d’accordo su tutto, ma non avevo la benché minima intenzione di passare nelle mani dei medici le ore mortali che mi rimanevano. Inoltre un simile provvedimento non era necessario. Dovevo soltanto bere e mangiare qualcosa di caldo, pensai, e godermi la tranquillità di un morbido letto d’albergo. Quindi avrei potuto restituire il corpo a James in condizioni tollerabili e fiondarmi con tutto il mio essere di nuovo dentro il mio.