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Prima però dovevo procurarmi un cambio di vestiti. Erano solo le tre e un quarto: avevo ancora circa dodici ore a mia disposizione e non potevo sopportare oltre quegli stracci sporchi e miserabili!

Raggiunsi il grande e lussuoso Georgetown Mail proprio mentre stava chiudendo, così da permettere alla gente di raggiungere la propria casa in tempo, evitando la bufera. Riuscii comunque a convincere il commesso di un’elegante boutique a servirmi. In modo assai rapido, e davanti al commesso impaziente, impilai tutti gli indumenti che pensavo mi occorressero. Un’ondata di vertigini s’impossessò di me quando diedi al giovane la piccola tessera di plastica. Mi divertì il fatto che, improvvisamente, il commesso avesse perso tutta la sua impazienza e che stesse cercando di vendermi sciarpe e cravatte. A fatica riuscivo a comprendere quello che mi diceva. Ah, sì, calcola l’importo. Darò tutto a James, alle tre della mattina, pensavo. A James piaceva avere le cose per niente. Certamente, sì, l’altro maglione e, perché no, anche la sciarpa…

Finalmente uscii, col mio pesante carico di scatole e sacchetti luccicanti, e venni colto da un’altra ondata di vertigini. In effetti mi sembrava che un velo scuro mi avvolgesse… Rischiavo davvero di cadere a terra privo di sensi. Una graziosa ragazza giunse in mio soccorso. «Ma lei sta per svenire!» gridò. Stavo sudando profusamente e, anche nel tepore del grande magazzino, sentivo freddo.

Quello di cui avevo bisogno era un taxi, le spiegai, ma non se ne trovavano. E in effetti in M Street rimanevano pochi gruppi sparuti di persone, anche perché la neve aveva ripreso a cadere.

A pochi isolati di lì, avevo però notato un bell’albergo in mattoni, dal nome incantevole e romantico: Four Seasons. Mi affrettai a raggiungerlo. Feci un cenno di saluto alla bella, gentile e giovane creatura, quindi, abbassando la testa, avanzai a fatica nel vento furioso. Sarei stato al caldo e al sicuro al Four Seasons, pensavo, tutto allegro, deliziandomi nel ripetere ad alta voce quel nome così bello. Avrei potuto cenare lì, senza tornare nella terribile villetta fino al momento dello scambio.

Quando infine raggiunsi la hall, mi parve più che soddisfacente. Depositai una grossa caparra per assicurarmi che Mojo, durante il nostro soggiorno, ricevesse lo stesso trattamento da gentiluomo riservato a me. La suite era sontuosa, con grandi finestre sul Potomac, distese apparentemente infinite di moquette chiara, stanze da bagno degne di un imperatore romano, impianti video e frigoriferi nascosti dentro bei mobili in legno e altri piccoli aggeggi a profusione.

Mi affrettai a ordinare un banchetto per me e Mojo, poi aprii il piccolo bar pieno di caramelle, superalcolici e altre gustose leccornie e mi servii il migliore scotch. Un sapore davvero spaventoso! Come faceva David a bere quella roba? La tavoletta di cioccolato era meglio. Straordinaria! Fantastica! La divorai in un boccone, dopodiché richiamai il ristorante e aggiunsi al mio ordine di qualche minuto prima tutti i dolci al cioccolato che comparivano sul menù.

David, devo chiamare David, pensai. Ma mi sembrava impossibile alzarmi dalla sedia e andare al telefono sulla scrivania. E c’erano tante cose che volevo considerare, fissare nella mente. Maledetti fastidi! Quell’esperienza era stata un inferno! Perlomeno mi stavo abituando a quelle mani enormi, che penzolavano qualche centimetro al di sotto di dove avrebbero dovuto essere, e a quella pelle scura e porosa. Non dovevo addormentarmi. Che spreco…

Il campanello mi fece sobbalzare. Mi ero addormentato. Era trascorsa circa mezz’ora di tempo mortale. Lottai per alzarmi, come se sollevassi un carico di mattoni a ogni passo, e riuscii in qualche modo ad aprire la porta all’addetta al servizio in camera, un’anziana e incantevole signora dai capelli biondo chiaro, che spinse nel soggiorno della suite un tavolino ricoperto con una tovaglia di lino e carico di cibo.

Dopo avere disteso a terra la salvietta da bagno che io avevo deciso di riconvertire in tovaglia per cani, diedi a Mojo la bistecca. Lui si mise a masticare con avidità, sdraiato come sua abitudine e come fanno solo i cani molto grandi, il che lo faceva apparire ancora più mostruoso, simile a un leone che rosicchia con indolenza un povero cristiano indifeso tenendolo intrappolato fra le enormi zampe.

Ingurgitai subito la minestra calda, non riuscendo quasi ad assaporarne gli ingredienti, il che era prevedibile, dato il mio tremendo raffreddore. Il vino era meraviglioso, incomparabilmente migliore di quello della sera precedente, e, sebbene avesse un sapore ancora molto annacquato rispetto al sangue, me ne scolai due bicchieri. Stavo per attaccare la pasta, dal momento che le due cose si accompagnavano bene insieme, quando alzai lo sguardo e mi accorsi che la cameriera si trovava ancora lì e aveva un’aria preoccupata.

«Lei è malato», disse la donna. «Lei è davvero molto malato.»

«Sciocchezze, ma chère», ribattei. «Ho un raffreddore, un raffreddore mortale, niente di più.» Pescai nella tasca della camicia il mio rotolo di banconote: le diedi alcuni pezzi da venti e le dissi di andare. Lei appariva molto riluttante.

«È un raffreddore a dir poco», aggiunse. «Credo che lei sia davvero malato. È stato fuori per molto tempo, vero?»

La fissai, colpito dalla sua sollecitudine, e mi resi conto che rischiavo davvero di scoppiare in lacrime come uno stupido. Avrei voluto dirle che ero un mostro e che quel corpo era soltanto rubato. Lei era molto dolce e, ovviamente, gentile per abitudine.

«Siamo tutti imparentati», le dissi. «Tutto il genere umano lo è. Dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro, non è così?» Immaginai che sarebbe rimasta inorridita da quei sentimenti sdolcinati, scaturiti da uno stato emotivo assai condizionato dall’alcol, e che a quel punto se ne sarebbe andata. Ma non lo fece.

«Sì, lo siamo», rispose. «Mi permetta di chiamarle un medico prima che la bufera peggiori.» «No, carissima. Vada ora», dissi. Lanciandomi un ultimo sguardo preoccupato, alla fine se ne andò.

Dopo aver divorato un piatto di tagliatelle in salsa di formaggio, altri bocconi salati e insapori, iniziai a domandarmi se quella donna non avesse ragione. Andai nel bagno e accesi le luci. L’uomo nello specchio aveva un aspetto spaventoso: gli occhi erano iniettati di sangue, un tremore gli scuoteva tutto il corpo e la pelle originariamente scura appariva piuttosto giallognola, se non proprio pallida.

Mi toccai la fronte, ma a cosa serviva? Certo non posso morire per questo, pensai. Ma poi non ne fui così sicuro. Ricordai l’espressione sul viso della cameriera e la preoccupazione della gente che mi aveva rivolto la parola per strada. Un altro attacco di tosse mi sopraffece.

Devo fare qualcosa. Ma cosa? Che sarebbe accaduto se i medici mi avessero dato qualche potente sedativo, capace d’intontirmi al punto di non poter tornare alla villetta? E cosa sarebbe successo se i loro medicinali avessero agito sulla mia concentrazione tanto da impedire lo scambio? Buon Dio, non avevo neppure tentato di sollevarmi e di uscire da quel corpo umano, un giochetto che conoscevo così bene nell’altra mia forma.

Non volevo nemmeno provarci. E se non fossi riuscito a tornare indietro? No, mi dissi. Aspetta James per simili esperimenti, e stai lontano dai medici e dagli aghi!

Suonò il campanello. Era la cameriera dal cuore tenero, che si era portata appresso un sacchetto di medicine: bottigliette con liquidi color verde e rosso brillante, e contenitori di plastica pieni di pillole. «Dovrebbe davvero chiamare un medico», disse, mentre appoggiava il tutto in fila sulla toilette di marmo. «Vuole che le chiamiamo un medico?»

«Assolutamente no», risposi, mettendole nelle mani altro denaro, e accompagnandola alla porta. Ma lei mi bloccò, chiedendomi il permesso di portar fuori il cane, dal momento che aveva appena mangiato.

Ah, sì, quella era un’idea meravigliosa. Le infilai in mano altre banconote, quindi dissi a Mojo di andare con lei e di fare tutto quello che gli diceva. La donna, che sembrava affascinata da lui, mormorò qualcosa a proposito del fatto che la sua testa fosse più grande della propria.