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Tornai nel bagno e guardai le bottigliette che aveva portato. Ero diffidente rispetto a quelle medicine! Ma non era molto educato da parte mia restituire a James un corpo malato. In effetti, cosa sarebbe successo se James non lo avesse voluto? No, non era credibile. Lui avrebbe preso i venti milioni oltre alla tosse e ai brividi.

Bevvi un rivoltante sorso della medicina verde, lottando contro un conato di vomito, poi mi sforzai di raggiungere il soggiorno, e mi sedetti di schianto davanti allo scrittoio.

Vidi lì la carta da lettere dell’albergo e una penna a sfera che scriveva abbastanza bene, in quel modo svolazzante e scivoloso tipico di quel genere di penne. Iniziai allora a scrivere, scoprendo che per me era molto difficile con quelle grandi dita, ma insistetti, descrivendo frettolosamente tutto ciò che avevo visto e sentito.

Scrissi senza sosta, anche se riuscivo a stento a tenere la testa dritta e respiravo a fatica per via dell’intensificarsi del raffreddore. Infine, quando finì la carta e io non potei più leggere i miei scarabocchi, ficcai le pagine in una busta che chiusi, sigillai e indirizzai alla mia attenzione all’appartamento di New Orleans, infilandomela poi nella tasca della camicia, al sicuro sotto il maglione, dove non sarebbe andata persa.

Infine mi distesi sul letto. Dovevo dormire. E dovevo farlo per parecchie delle ore mortali che mi rimanevano, poiché non mi rimaneva la forza per nient’altro.

Ma non dormii molto profondamente. Avevo troppa febbre e troppa paura. Ricordo che la cameriera gentile rientrò con Mojo e mi disse di nuovo che ero ammalato. Ricordo che fece una capatina una cameriera del turno di notte… Mi sembrò che si fosse data un gran daffare per ore. Ricordo Mojo sdraiato accanto a me, il suo calore, e come io mi rannicchiassi contro di lui, assaporando il suo odore, il buonissimo odore di lana del suo pelo, anche se non lo potevo sentire con la stessa intensità di quando mi trovavo nel vecchio corpo, e per un momento pensai di essere di nuovo in Francia.

Ma il ricordo di quei tempi era stato in qualche modo cancellato da quell’ultima esperienza. Di tanto in tanto aprivo gli occhi, scorgevo un’aureola intorno alla lampada accesa e vedevo le finestre scure riflettere i mobili. Immaginai persino di udire la neve che cadeva, fuori.

A un certo punto mi alzai, diretto verso il bagno. Ma battei la testa contro lo stipite della porta e caddi in ginocchio. Mon Dieu, quei piccoli tormenti! Come riescono i mortali a sopportarli? Come avevo fatto io a sopportarli? Che dolore! Come un liquido che si diffondeva sotto la pelle.

Ma c’erano prove peggiori che mi aspettavano. La disperazione pura e semplice mi obbligò, come d’uopo, a utilizzare il gabinetto e poi a ripulirmi accuratamente: una cosa disgustosa! Quindi dovetti lavarmi le mani. E lo feci più volte, tremando per il disgusto. E quando scoprii che il viso di quel corpo era ormai ricoperto da un’ombra davvero fitta di barba incolta, scoppiai a ridere. E che brutte croste c’erano sul mio labbro superiore e sul mento, e anche giù, sul collo della camicia. Cosa sembravo? Un pazzo, un derelitto. Ma non potevo radere tutta quella barba.

Non avevo un rasoio; inoltre, se lo avessi fatto, mi sarei senz’altro tagliato la gola.

La camicia era sudicia. Avevo dimenticato d’indossare gli abiti che avevo comprato, e forse era troppo tardi per farlo? Intontito e confuso, mi accorsi con stupore dal mio orologio che erano le due. Buon Dio, l’ora della metamorfosi era ormai imminente.

«Vieni, Mojo», dissi. Optammo per le scale e non per l’ascensore — ma non era una grande impresa, considerando che ci trovavamo a un solo piano da terra —, quindi scivolammo nella hall silenziosa e quasi deserta, e poi fuori, nella notte.

Alti cumuli di neve s’innalzavano ovunque. Le strade erano palesemente chiuse al traffico, e io avanzai a piedi, continuando a cadere sulle ginocchia, con le braccia che mi sprofondavano nella neve e Mojo che mi leccava il viso come se cercasse di tenermi caldo. Ma continuai, con grandi sforzi, lungo la strada in salita, senza curarmi dello stato della mia mente e del mio corpo, finché non girai un angolo e vidi davanti a me le luci familiari della villetta.

La cucina buia era stata invasa dalla neve, che formava un alto, soffice manto. Credevo di non aver problemi ad avanzare, poi però mi accorsi che sotto la superficie si trovava uno strato di ghiaccio piuttosto scivoloso dovuto alla tempesta della notte precedente.

Nonostante ciò, riuscii a raggiungere sano e salvo il soggiorno, e mi distesi, tremante, sul pavimento. Solo allora mi resi conto di avere dimenticato il cappotto e tutto il denaro che avevo nelle tasche. Mi rimanevano solo alcune banconote nella camicia. Ma il Ladro di Corpi sarebbe arrivato presto. Avrei riavuto indietro la mia forma e tutti i miei poteri! E allora come sarebbe stato piacevole riflettere su tutto ciò, al sicuro nella mia tana di New Orleans. Malattia e freddo non avrebbero significato più nulla, mali e dolori avrebbero cessato di esistere, e io sarei tornato a essere il vampiro Lestat che si libra al di sopra dei tetti e cui basta allungare una mano per toccare le lontane stelle.

Quel luogo sembrava gelido rispetto all’albergo. Mi girai a guardare il piccolo camino, cercando di dare fuoco ai ceppi con la forza del pensiero. Poi risi, perché ricordai che non ero ancora Lestat, ma che James sarebbe arrivato presto.

«Mojo, non posso sopportare questo corpo un minuto di più», sussurrai. Il cane si sedette davanti a una finestra, ansimando e guardando fuori, nella notte, mentre il suo respiro appannava il vetro scuro.

Cercai di rimanere sveglio, ma non ci riuscii. Più sentivo freddo e più mi assopivo. E allora un pensiero terrificante s’impossessò di me. Cosa sarebbe accaduto se io non fossi riuscito a uscire da quel corpo al momento stabilito? Se non fossi riuscito ad accendere un fuoco, a leggere i pensieri, a…

Lasciandomi prendere dalle mie oniriche fantasie, provai un trucchetto. Lasciai sprofondare il mio pensiero fino quasi alla soglia dei sogni. Sentii provenire dal profondo le deliziose vibrazioni d’allarme che spesso precedono l’uscita del corpo spirituale. Ma non accadde nulla d’insolito. Tentai di nuovo. «Sali», mi dissi. Cercai d’immaginare la forma eterea di me stesso separarsi violentemente e salire, libera, verso il soffitto. Non ebbi fortuna. Se avessi provato a farmi spuntare un paio d’ali, il risultato sarebbe stato identico. Ero così stanco e sentivo un tale dolore… Rimasi ancorato a quelle membra senza speranza, legato a quel petto sofferente, quasi incapace di trarre un respiro senza un grande sforzo.

Ma James sarebbe arrivato presto. Lo stregone, l’unico che conoscesse il trucco. Sì, James, che non vedeva l’ora d’impossessarsi dei suoi venti milioni, avrebbe di certo guidato l’intero processo.

Quando riaprii gli occhi, vidi la luce del sole.

Mi alzai a sedere di scatto, con lo sguardo fisso davanti a me. Non poteva trattarsi di un errore. Il sole, alto nel cielo, si riversava in un tumulto di luce sul pavimento attraverso le finestre. Potevo udire i rumori del traffico.

«Mio Dio», sussurrai. «Mio Dio, mio Dio, mio Dio!»

Mi stesi di nuovo, col petto che mi doleva. In quel momento ero troppo frastornato per dar forma a un pensiero o per agire in modo coerente oppure per decidere se quella che sentivo era collera o paura cieca. Poi sollevai il polso per guardare l’orologio: erano le undici e quarantasette della mattina.

In meno di quindici minuti, la cifra di venti milioni di dollari, in deposito fiduciario presso la banca del centro della città, sarebbe stata trasferita ancora una volta a Lestan Gregor, lo pseudonimo che si riferiva a quel corpo ancora in possesso di Raglan James. Lui evidentemente non aveva fatto ritorno alla sua villetta per effettuare lo scambio che faceva parte del nostro accordo. Ora, essendosi giocato quell’immensa fortuna, con estrema probabilità non sarebbe più tornato indietro.