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Lei annuì, asciugandomi ancora la fronte e sentendomi il polso con le sue dita calde e sicure.

«… e io ho deciso di farlo, di farlo e basta. Oh, so di avere sbagliato. Non dovevo lasciarlo andare con tutto il potere… Tuttavia puoi immaginare, e ora lo vedi, io non posso morire in questo corpo. Gli altri non sapranno nemmeno che cosa mi è successo. Se lo sapessero, verrebbero…» «Gli altri vampiri», bisbigliò lei.

«Sì.» E poi presi a raccontarle tutto di loro, della ricerca che avevo fatto molto tempo prima per trovare gli altri, pensando che, se avessi saputo com’erano andate le cose, sarei riuscito a spiegarmi il mistero… Continuai a parlare spiegandole di noi, di quello che eravamo, di tutto il mio lento e faticoso viaggio nei secoli. Le descrissi com’ero stato attratto dalla musica rock, il palcoscenico perfetto per me, quello che avevo voluto provare, e poi ancora le parlai di David, di Dio e del Diavolo nel caffè di Parigi, e di David accanto al fuoco con la Bibbia in mano mentre diceva che Dio non è perfetto. Tenevo gli occhi chiusi, ma ogni tanto li aprivo. Lei mi tenne la mano per tutto il tempo.

La gente andava e veniva. I medici discutevano. Una donna si lamentava.

Fuori c’era di nuovo la luce. La vidi quando la porta si aprì, e il corridoio fu spazzato da una crudele folata di aria fredda. «Come riusciremo a lavare tutti questi pazienti?» chiese un’infermiera. «Quella donna dovrebbe stare in isolamento. Chiama il medico. Digli che abbiamo un caso di meningite al piano.»

«È di nuovo mattina, non è vero? Tu devi essere così stanca, sei stata con me per tutto il pomeriggio e per tutta la notte. Io sono così spaventato, ma so che devi andare.»

Stavano portando dentro altri malati. Il medico le disse che avrebbero dovuto girare tutte le brande in modo tale che le testiere fossero disposte contro il muro. Aggiunse poi che avrebbe dovuto andare a casa. Altre infermiere avevano cominciato il loro turno. Lei doveva riposare.

Stavo piangendo? Il piccolo ago mi faceva male al braccio. E com’era secca la mia gola, com’erano inaridite le mie labbra.

«Noi non siamo neppure autorizzati ad ammettere tutti questi pazienti.»

«Riesci a sentirmi, Gretchen?» chiesi. «Riesci a seguire quello che sto dicendo?

«Me lo hai chiesto mille volte», rispose lei. «E ogni volta ti ho detto che riesco a sentire, che riesco a capire. Ti sto ascoltando. Non ti lascerò.»

«Dolce Gretchen. Sorella Gretchen.»

«Voglio portarti fuori di qui.»

«Che cos’hai detto?»

«Devi venire a casa mia, con me. Tu stai molto meglio ora, la febbre sta scendendo. Ma se tu resti qui…» II suo viso tradì un certo imbarazzo. Mi portò una tazza alle labbra e bevvi diversi sorsi.

«Capisco. Sì, per favore, portami con te, ti prego.» Cercai di mettermi a sedere. «Ho paura a rimanere qui.»

«Non subito», replicò lei, invitandomi a ridistendermi sulla branda. Poi mi tolse il cerotto dal braccio ed estrasse quel piccolo ago molesto. Mio Dio, dovevo pisciare! Non c’era dunque fine a quelle rivoltanti necessità fisiologiche? Cosa significava essere umani? Andare di corpo, pisciare e mangiare, per poi ricominciare ancora tutto da capo? Ne valeva la pena per vedere la luce del sole? Morire per quello comunque era troppo. Dovevo pisciare. Ma non potevo sopportare di usare ancora quella specie di bottiglia, anche se riuscivo a malapena a ricordarmela.

«Perché tu non hai paura di me?» chiesi. «Non pensi che io sia pazzo?»

«Tu fai del male alla gente solo quando sei un vampiro, quando ti trovi nel tuo legittimo corpo. Non è vero?» chiese.

«Sì», risposi. «È vero. Ma tu sei come Claudia. Tu non hai paura di nulla.»

«La stai trattando come una stupida», disse Claudia. «Farai del male anche a lei.»

«Sciocchezze, lei non ci crede», replicai. Mi sedetti sul divano nel salottino del piccolo albergo, a contemplare la piccola stanza elegante, del tutto a mio agio tra quegli antichi e raffinati mobili dorati. Il XVIII secolo, il mio secolo. L’epoca dell’uomo razionale. Il mio momento di massima perfezione.

Fiori a punto croce. Broccato. Spade dorate e risa di uomini ubriachi dalla strada sottostante.

David era alla finestra, intento a guardare fuori, sui tetti bassi della città coloniale. Era mai stato prima in quel secolo?

«No, mai!» rispose con una certa soggezione. «Ogni superficie è lavorata a mano, ogni misura è irregolare. Com’è lieve il potere esercitato dalle cose create sulla natura, come se si potesse tornare così con facilità alle origini.»

«Vattene, David», disse Louis. «Tu non fai parte di questo luogo. Noi dobbiamo rimanere. Non c’è nulla che possiamo fare.»

«Suvvia, sei un po’ melodrammatico», commentò Claudia. «Davvero.» Indossava quel piccolo abito sudicio di quand’era uscita dall’ospedale. Bene, provvedere presto. Saccheggerò per lei i negozi di pizzi e nastri. Le comprerò delle sete, minuscoli braccialetti d’argento e un set di anelli con le perle.

La cinsi col braccio. «Ah, come bello sentire qualcuno dire la verità», dissi. «Che capelli deliziosi! E ora lo saranno per sempre.»

Tentai di sollevarmi di nuovo a sedere, ma sembrava impossibile. Stavano spingendo una lettiga lungo il corridoio, con due infermiere ai lati. Qualcuno sbatté contro la branda e io mi sentii attraversare dall’onda d’urto. Poi tornò la calma, mentre le lancette del grande orologio continuavano a girare, a piccoli strappi. L’uomo vicino a me si lamentava. Girò la testa: aveva sugli occhi un’enorme benda bianca. Come sembrava nuda la sua bocca.

«Dobbiamo mettere queste persone in isolamento», disse una voce.

«Dai, vieni, ti porto a casa.»

E Mojo, che ne era stato di Mojo? E se erano venuti a portarlo via? Quello era un secolo in cui incarceravano i cani per il semplice fatto di essere tali. Dovevo spiegare tutto ciò a lei. Lei mi stava sollevando, o almeno ci stava provando, passandomi un braccio intorno alle spalle. Mojo che abbaiava nella villetta. Era in trappola?

David era triste. «C’è la peste in città, qui fuori.»

«Ma non ti può colpire, David», replicai.

«Hai ragione», disse. «Ma ci sono altre cose…»

Claudia rise. «Lei ti ama, lo sai.»

«Avresti potuto morire di peste», mormorai.

«Forse non era giunta la mia ora.»

«Tu credi che noi abbiamo una nostra ora?»

«No, in realtà no», lei rispose. «Forse era solo più facile dare a te la colpa di ogni cosa. Vedi, io non ho mai veramente distinto il bene dal male.»

«Hai avuto il tempo per imparare», dissi.

«Anche tu, molto più di quanto ne abbia avuto io.»

«Grazie a Dio mi stai portando via», sussurrai. «Ho così paura», aggiunsi. «Una semplice, comunissima paura…»

«Un fardello in meno per l’ospedale», disse Claudia con una sonora risata, mentre i suoi piedini zampettavano sull’orlo della sedia. Indossava di nuovo il suo elegante abito ricamato: aveva fatto progressi.

«Gretchen la bellissima», dissi. «Ti si accendono le guance quando lo dico.»

Lei sorrideva mentre posava il mio braccio sinistro sulla sua spalla, e teneva il braccio destro serrato intorno alla mia vita. «Mi prenderò cura di te», mi bisbigliò nell’orecchio. «Non vivo molto lontano.»

Raggiunta la sua piccola auto, rimasi immobile nel vento pungente, con quel disgustoso organo tra le mani, a guardare l’arco giallo di orina fumante che finiva nella neve mezza sciolta. «Mio Dio», esclamai. «È quasi bello! Che strana cosa gli esseri umani, che riescono a trarre piacere da cose così terribili!»