«Mio Dio, aiutami», bisbigliai. «Rivoglio indietro il mio corpo.» Avevo voglia di piangere.
Lei insistette perché mi sdraiassi, appoggiandomi ai cuscini del letto. Il tepore della stanza era piacevole. Cominciò a radermi il viso! Odiavo la sensazione della barba lunga. Le raccontai che avevo sempre avuto il volto rasato, come tutti gli uomini dell’epoca in cui ero vissuto e morto, e che, una volta diventati vampiri, rimanevamo uguali per sempre. Diventavamo pallidi, sempre più pallidi, quello sì, e forti, sempre più forti, mentre i nostri volti risultavano sempre più lisci. Ma i nostri capelli mantenevano sempre la stessa lunghezza, come le unghie e la barba. E io di barba non ne avevo mai avuta molta sin dall’inizio.
«Questa trasformazione… è stata una cosa dolorosa?» chiese.
«Lo è stata perché ho lottato. Non volevo che avvenisse e non sapevo che cosa mi stessero facendo con precisione. Mi sembrava di essere stato catturato da un mostro uscito dai tempi del Medioevo e di essere stato trascinato via da una città civile. Non devi scordare che Parigi all’epoca era un luogo meravigliosamente evoluto. Oh, se ti ci ritrovassi adesso lo definiresti perlomeno barbaro, ma a un signore di campagna proveniente da un castello sudicio appariva davvero eccitante, coi teatri, con l’opera e coi balli a corte. Non puoi immaginare. E poi quella tragedia, quel demone uscito dall’oscurità che mi ha portato nella sua torre. L’atto in sé, la Magia Tenebrosa, non provoca dolore, ma estasi. Allora si spalancano gli occhi e tutta l’umanità ti appare meravigliosa, meravigliosa come mai prima.»
Indossai la maglietta pulita che lei mi diede e m’infilai sotto le coperte, lasciandomele rimboccare fino al mento. Mi sentivo come se stessi galleggiando, anche se, a dir la verità, quella era una delle sensazioni più piacevoli che avessi provato da quand’ero diventato mortale, una sensazione simile all’ubriachezza. La donna mi tastò il polso e posò una mano sulla mia fronte. Potevo vedere in lei la paura, ma non volevo crederlo.
Le dissi che il vero dolore per me, individuo malvagio, giungeva dal comprendere la bontà e dal fatto che, io, la bontà la rispettavo. Non ero mai stato privo di scrupoli. Ma per tutta la mia vita, anche quand’ero un ragazzo mortale, ero sempre stato costretto ad andare contro la mia coscienza per ottenere qualcosa di davvero importante.
«Ma in che modo? Cosa vuoi dire?» chiese. Le raccontai di come fossi scappato con una compagnia di attori quand’ero un ragazzo, commettendo un evidente peccato di disobbedienza. Mi ero macchiato poi di un’altra colpa fornicando con una donna della compagnia. A quei tempi, però, recitare sul palcoscenico del villaggio e fare l’amore mi erano apparse imprese d’inestimabile valore! «Vedi, tutto ciò è successo quand’ero vivo, soltanto vivo. I futili peccati di un ragazzo! Dopo la mia morte, ogni passo che ho fatto nel mondo ha significato perpetrare il peccato, sebbene a ogni angolo io vedessi sensualità e bellezza.»
Come può essere così? le chiesi. Quando avevo trasformato Claudia in una vampira bambina e Gabrielle, mia madre, in una vampira prodigio di bellezza, avevo cercato ancora una volta di realizzare qualcosa d’importante. L’avevo trovato irresistibile. E in quei momenti il concetto di peccato non aveva il minimo senso.
Parlai ancora, spiegai anche di David e della sua visione di Dio e del Diavolo nel caffè, e di come David pensasse che Dio non fosse perfetto, che stesse ancora imparando e che, invece, il Diavolo avesse imparato tanto da arrivare ormai a disprezzare il proprio lavoro, implorando di esserne lasciato fuori. Ma sapevo di averle già raccontato tutte quelle cose prima, in ospedale, mentre lei mi teneva la mano.
C’erano momenti in cui lei smetteva di darsi da fare con cuscini, pillole e bicchieri d’acqua, e si limitava a guardarmi. Com’era immobile il suo viso e com’era energica la sua espressione, con quelle ciglia fitte e scure che le contornavano gli occhi chiari, e quella grande bocca morbida così gentile.
«So che sei buona», dissi. «Ti amo per questo. Tuttavia te lo darei, il Sangue Tenebroso, per renderti immortale. Per averti con me in eterno, perché tu mi sembri così misteriosa e forte.»
Avvertii intorno a me una cortina di silenzio, un rumore sordo nelle orecchie e un velo sugli occhi. La guardai, mentre sollevava una siringa e sembrava verificarla, facendo zampillare una minuscola quantità di liquido color argento. Poi m’infilò l’ago nella pelle. La leggera sensazione di bruciore mi parve molto lontana, davvero poco importante.
Mi porse un grande bicchiere di succo d’arancia, e io bevvi con avidità. Mmm… Quella era proprio una cosa da gustare sino in fondo. Denso come il sangue, ma pieno di dolcezza e insolito, quasi come se contenesse una luce divoratrice.
«Avevo dimenticato tutte queste cose», mormorai. «Com’è buono, meglio del vino, a dir la verità. Avrei dovuto berlo prima. E pensare che me ne sarei potuto andare senza saperlo.» Sprofondai nel cuscino e guardai le travi nude del soffitto spiovente. Una piccola stanzetta, graziosa e molto bianca. Assai semplice. La sua cella da suora. Fuori della finestrella la neve cadeva. Contai i piccoli riquadri in cui era diviso il vetro: erano dodici.
Mi trovavo in uno stato di dormiveglia. Ricordo vagamente che lei tentava di farmi bere un po’ di brodo e io non ci riuscivo. Ero in preda alla paura che quei sogni tornassero. Non volevo che venisse Claudia. La luce della piccola camera mi bruciava gli occhi. Le raccontai di Claudia che mi perseguitava e del piccolo ospedale.
«Pieno di bambini», mormorò, come se non avesse rilevato prima quel particolare. Come sembrava confusa. Parlò a voce bassa del suo lavoro nelle missioni… coi bambini. Era stata nelle giungle del Venezuela e del Perù.
«Non parlare più», disse alla fine.
Sapevo di spaventarla. Stavo di nuovo fluttuando dentro l’oscurità e al di fuori di essa. Sentivo di avere una pezza fresca sulla fronte e ridevo per quella sensazione di leggerezza. Le spiegai che nel mio corpo abituale potevo volare, e le raccontai di come mi fossi esposto alla luce del sole sopra il deserto dei Gobi.
Di tanto in tanto aprivo gli occhi di scatto, turbato per il fatto di trovarmi lì, nella piccola stanza bianca.
Nella luce brunita vidi sul muro un crocifisso con un Cristo sanguinante e, in cima a una piccola libreria, una statua della Madonna, la vecchia immagine familiare col capo reclinato e le mani protese. E quella con la ferita rossa sulla fronte era santa Rita? Ah, tutte le vecchie convinzioni! E pensare che erano così vive nel cuore di quella donna.
Diedi una sbirciata, tentando di leggere i titoli più grandi dei libri sugli scaffali: Tommaso d’Aquino, Jacques Maritain, Pierre Teilhard de Chardin. Il semplice sforzo di ricondurre quei diversi nomi ai rispettivi filosofi cattolici mi lasciò stremato. Tuttavia, con la mente febbricitante e incapace di trovare pace, lessi altri titoli: c’erano volumi sulle malattie tropicali, sulle malattie infantili, sulla psicologia infantile. Potevo distinguere una fotografia incorniciata, appesa al muro vicino al crocifisso: un gruppo di suore forse in occasione di una cerimonia. Se lei si trovasse tra loro, non avrei saputo dirlo, non con quegli occhi mortali che, tra l’altro, mi dolevano. Le suore indossavano corte tonache blu e veli blu e bianchi.
Lei mi teneva la mano. Le dissi di nuovo che dovevo andare a New Orleans. Dovevo vivere per raggiungere il mio amico Louis, che mi avrebbe aiutato a recuperare il mio corpo. Le descrissi Louis e la sua esistenza, al di là della portata del mondo moderno, in una piccola casa senza luce dietro un giardino in rovina. Spiegai che era debole, ma che poteva donarmi il suo sangue: io allora sarei potuto tornare vampiro, avrei potuto dare la caccia al Ladro di Corpi e riavere la mia vecchia forma. Le raccontai che Louis era comunque molto umano, che non mi avrebbe dato una grande forza come vampiro, ma che avrei potuto trovare il ladro solo se avessi avuto un corpo soprannaturale.