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«Così, quando lui mi darà il sangue, questo corpo morirà», continuai. «Tu lo stai salvando per consegnarlo alla morte.» Stavo piangendo. Mi resi conto che parlavo in francese, ma mi sembrava che lei capisse, dal momento che mi rispose in francese che dovevo riposare e che stavo delirando.

«Io sono con te», concluse, sempre in francese, con estrema lentezza. «Ti proteggerò.» La sua mano calda e gentile era sopra la mia. Con grande premura, mi scostò i capelli dalla fronte. Il buio calò intorno alla piccola casa.

Nel piccolo focolare c’era un fuoco acceso. Con una lunga vestaglia bianca di flanella molto spessa e i capelli sciolti, Gretchen si era distesa accanto a me, e mi teneva stretto. Io tremavo. Mi piaceva la sensazione dei suoi capelli a contatto col mio braccio.

Stavo vicino a lei, temendo di poterle fare del male. Mi terse il viso più volte con una pezza fresca e mi costrinse a bere succo d’arancia o acqua fresca. La notte era sempre più fonda. E profondo era il mio panico.

«Non ti lascerò morire», mi bisbigliò all’orecchio. Ma io sentii la paura che lei non riusciva a nascondere. Il sonno mi avvolse, leggero, così che la stanza mantenne la sua forma, il suo colore, la sua luce. Invocai ancora gli altri, pregando Marius di aiutarmi. Iniziai a pensare cose terribili e immaginai che fossero tutti lì a guardarmi, come tante piccole statue bianche, insieme con la Vergine e santa Rita, e che si rifiutassero di soccorrermi.

A un certo punto, prima dell’alba, udii alcune voci. Era arrivato un medico, un giovane stanco, dalla pelle giallastra e dagli occhi cerchiati di rosso. Ancora una volta m’infilarono un ago nel braccio e, quando mi porsero dell’acqua ghiacciata, io bevvi avidamente. Non riuscii a seguire il senso del discorso che il medico mormorava, né era previsto che lo capissi. Ma il tono della voce era calmo e chiaramente rassicurante. Captai le parole «epidemico», «bufera di neve» e «condizioni impossibili».

Quando la porta si chiuse, la pregai di tornare indietro. «Vicino al tuo cuore che batte», le sussurrai nell’orecchio quando si distese al mio fianco. Com’era dolce la sensazione delle sue membra dolci e pesanti, dei suoi grandi seni liberi contro il mio petto, della sua gamba levigata contro la mia. Ero troppo ammalato per avere paura?

«Dormi, ora», disse. «Cerca di non preoccuparti.» Infine un sonno profondo si stava impadronendo di me, profondo come la neve là fuori, profondo come le tenebre.

«Non credi che sia giunto il momento di confessare?» chiese Claudia. «Tu lo sai che la tua vita è davvero appesa a un filo.» Era seduta sulle mie ginocchia e mi guardava fisso negli occhi tenendomi le mani sulle spalle e il piccolo viso a un paio di centimetri dal mio.

Il mio cuore si contrasse in una morsa, con un’esplosione di dolore, anche se non c’era nessun coltello, ma solo quelle manine che si aggrappavano a me e il profumo di essenza di rose che i suoi capelli scintillanti emanavano.

«No, non posso confessare», le dissi. Come mi tremava la voce! «Mio Dio, cosa vuoi da me?»

«Non ti dispiace! Non ti è mai dispiaciuto! Dillo. Di’ la verità! Ti meritavi quel coltello con cui ti ho trapassato il cuore, e tu lo sai. Lo hai sempre saputo!»

«No!»

Qualcosa si ruppe dentro di me mentre tenevo gli occhi fissi su di lei, su quel volto finissimo, incorniciato dai capelli sottili. Mi alzai, sollevandola e adagiandola sulla sedia di fronte a me, e m’inginocchiai ai suoi piedi.

«Claudia, ascoltami. Non ho cominciato io. Non l’ho creato io, il mondo! Quel male c’è sempre stato. Covava nell’ombra, e mi ha catturato, facendo sì che io entrassi a farne parte. Ho agito come sentivo di dover fare. Per favore, non ridere di me e non girare la testa dall’altra parte. Non ho creato io il male. Non ho creato io me stesso!»

Com’era perplessa, mentre mi fissava. Poi la sua piccola bocca carnosa si aprì in un meraviglioso sorriso.

«Non è stato tutto un tormento», dissi, mentre le mie dita affondavano nelle sue piccole spalle. «Non è stato sempre un inferno. Dimmi che non lo è stato, che abbiamo vissuto qualche attimo di felicità. Possono essere felici i demoni? Mio Dio, non capisco.»

«Tu non capisci, ma fai sempre qualcosa, non è così?» «Sì, e non mi dispiace affatto. Potrei gridarlo dall’alto dei tetti fino a raggiungere la volta del paradiso. Claudia, lo rifarei!» Emisi un grande sospiro. Lo dissi ancora, a voce sempre più alta. «Lo rifarei!»

Sulla stanza calò il silenzio.

La sua calma rimase immutata. Era arrabbiata? Sorpresa? Mi era impossibile capirlo mentre la guardavo negli occhi privi di espressione.

«Oh, sei cattivo, padre», disse con voce sommessa. «Come fai a sopportarlo?»

David si girò, voltando le spalle alla finestra. Si mise dietro di lei a osservarmi, mentre io me ne stavo lì, in ginocchio.

«Sono l’esponente ideale della mia specie. Sono il vampiro perfetto. Quando guardi me, vedi il vampiro Lestat. Nessuno può offuscare questa figura che hai di fronte, nessuno!» Mi alzai lentamente. «Io non sono un buffone del tempo né un Dio indurito dai millenni. Non sono nemmeno l’imbroglione dal mantello nero o il vagabondo addolorato. Io ho una coscienza, so distinguere tra il bene e il male. So quello che faccio e lo faccio, certo. Io sono il vampiro Lestat. Ecco la risposta. Fanne ciò che vuoi.»

L’alba. Luminosa e scialba sulla neve. Gretchen dormiva, e intanto mi cullava.

Non si svegliò quando mi sedetti, allungandomi per prendere il bicchiere d’acqua. Un’acqua insapore, ma fresca.

Poi lei aprì gli occhi, alzandosi di scatto. I capelli biondo scuro erano scarmigliati, ma apparivano asciutti e puliti, percorsi da tenui riflessi.

Le baciai la guancia tiepida e sentii le sue dita sul collo e poi ancora sulla fronte.

«Tu mi hai aiutato a venirne fuori», dissi con voce tremula e roca. Poi mi distesi, appoggiandomi al cuscino. Ancora una volta sentii le lacrime rigarmi le guance e chiudendo gli occhi mormorai: «Addio, Claudia», sperando che Gretchen non sentisse.

Quando riaprii gli occhi, trovai ad attendermi una grande scodella di brodo che lei mi aveva preparato: lo bevvi, trovandolo quasi buono. Su un piatto luccicavano mele e arance tagliate: le mangiai, affamato, colpito dalla friabilità delle mele e dalla consistenza molto fibrosa delle arance. Poi arrivò un infuso caldo con liquore forte, miele e limone, e mi piacque tanto che lei corse a farmene dell’altro.

Ancora una volta pensai a come fosse simile alle donne greche di Picasso, bionda e robusta. Le sue sopracciglia erano scure, e i suoi occhi chiari, quasi di un verde pallido, conferivano al suo volto un’aria di dedizione e d’innocenza. Non era giovane, e anche quello, a mio parere, contribuiva in modo notevole a esaltarne la bellezza.

La sua espressione rivelava altruismo e perplessità nel contempo. E le stesse cose coglievo nel modo in cui assentiva e mi diceva che era meglio se facevo domande.

Appariva costantemente assorta nei suoi pensieri. Per un lungo momento rimase immobile a guardarmi come se la sconcertassi, poi, con estrema lentezza, si chinò e premette le sue labbra contro le mie. Una scossa vibrante di eccitazione mi attraversò.

Ancora una volta dormii. Un sonno senza sogni. Era come se fossi sempre stato un essere umano e da sempre mi trovassi in quel corpo. E poi ero così grato per il letto morbido e pulito…

Pomeriggio. Squarci di azzurro si aprivano dietro gli alberi. Quasi in trance, la guardai preparare la legna per il fuoco. Osservai il bagliore sui suoi levigati piedi nudi. Col pelo grigio ricoperto da una leggera spolverata di neve, Mojo mangiava con tranquillità dal piatto che teneva tra le zampe, alzando di tanto in tanto la testa per guardarmi.

Il mio pesante corpo umano stava ancora ardendo di febbre, tuttavia sembrava più fresco, e poi stava meglio: i dolori risultavano meno acuti e il tremore era sparito. Ma perché lei aveva fatto tutto quello per me? Perché? E cosa posso fare io per lei? mi chiesi. Non avevo più paura di morire. Ma quando pensavo a ciò che ancora mi aspettava (il Ladro di Corpi doveva essere catturato!) mi prendevano fitte di panico. E per un’altra notte sarei stato troppo malato per andarmene da lì.