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Di nuovo, giacemmo sonnecchiando l’uno nelle braccia dell’altra, lasciando che la luce fuori scemasse. L’unico rumore che si sentiva era il respiro pesante di Mojo. Il piccolo fuoco ardeva. La stanza era calda e immobile. Tutto il mondo sembrava caldo e immobile. La neve cominciò a cadere e ben presto calarono anche le inesorabili tenebre della notte.

Un istinto di protezione mi colse quando guardai il suo viso addormentato e ripensai all’aria perplessa che avevo scorto prima nei suoi occhi. Anche la sua voce rivelava una sfumatura di grave malinconia. C’era qualcosa in lei che suggeriva una profonda rassegnazione. Qualsiasi cosa fosse accaduta, pensai, io non l’avrei lasciata, almeno finché non avessi saputo come fare per ripagarla. E poi lei mi piaceva. Per quel suo lato oscuro, quella sua qualità nascosta, e per la semplicità dei suoi discorsi e dei suoi movimenti, oltre che per il candore nei suoi occhi.

Quando mi risvegliai, il medico era ancora lì. Si trattava sempre dello stesso tipo giovane dalla carnagione giallastra e dalla faccia stanca, anche se sembrava un po’ più riposato e il suo cappotto bianco appariva fresco e pulito. Mi aveva appoggiato sul petto un piccolo oggetto freddo e metallico, e mi stava auscultando il cuore, i polmoni o qualche altro rumoroso organo interno alla ricerca d’informazioni. Le sue mani erano protette da un paio di brutti e viscidi guanti di plastica. E stava parlando a Gretchen a bassa voce, come se io non fossi lì, riferendo le incessanti difficoltà che c’erano in ospedale.

Gretchen portava un semplice abito blu, molto simile a un vestito da suora, pensai, se non per il fatto che era corto. Indossava anche calze velate nere. I suoi capelli erano meravigliosamente scompigliati, lisci e puliti, e mi rammentarono il fieno che la principessa della favola di Pierino Porcospino filava, trasformandolo in fili d’oro.

Mi venne di nuovo in mente Gabrielle, mia madre, e rammentai quel periodo misterioso, simile a un incubo, che aveva fatto seguito alla sua trasformazione in vampira: i capelli biondi che si era tagliata le erano ricresciuti nell’arco di un giorno, mentre lei dormiva nella cripta il suo sonno simile alla morte. Quando se n’era accorta, era quasi impazzita. Aveva gridato a lungo prima di calmarsi. Non sapevo perché quei ricordi fossero emersi… L’unico punto di contatto erano i capelli di quella donna. Lei non aveva nulla di Gabrielle. Proprio nulla.

Infine il medico smise di tastarmi e di sottoporrai alle sue auscultazioni, e si allontanò per consultarsi con lei. Accidenti al mio udito umano! Però sapevo di essere quasi guarito. E quando si avvicinò ancora, dicendomi che sarei stato bene e che avevo solo bisogno di qualche altro giorno di riposo, io ammisi, in tutta semplicità, che era stato merito delle cure di Gretchen.

Lui mi rispose annuendo e mormorando una serie di frasi incomprensibili, quindi se ne andò nella neve. Il cambio della sua auto grattò leggermente mentre percorreva il vialetto.

Mi sentivo così lucido, stavo così bene che volevo piangere. Bevvi invece ancora quel delizioso succo d’arancia e cominciai a pensare… a ricordare…

«Ho bisogno di lasciarti solo per un po’», disse Gretchen. «Devo andare a prendere qualcosa da mangiare.»

«Sì, e sarò io a pagare», risposi. Posai la mano sul suo polso. Sebbene la mia voce risultasse ancora debole e rauca, le dissi dell’albergo, e del fatto che il mio denaro si trovasse lì, nella tasca del mio cappotto. Ce n’era abbastanza per ripagarla delle sue attenzioni, come del cibo: lei doveva andare a recuperarlo. La chiave si trovava di certo nei miei abiti, spiegai.

Li aveva sistemati sopra un appendiabiti: trovò la chiave nella tasca della camicia.

«Vedi?» dissi ridacchiando. «Ti ho detto la verità.»

Lei sorrise e il suo volto apparve soffuso di calore. Disse che sarebbe andata a prendermi i soldi se io avessi acconsentito a starmene lì tranquillo. Non era una buona idea lasciare in giro del denaro, nemmeno in un bell’albergo.

Volevo risponderle, ma avevo così sonno… Poi, attraverso la piccola finestra, la osservai camminare nella neve in direzione della piccola auto. La vidi salire: mostrava una figura molto forte e robusta, sebbene la sua pelle chiara e la sua dolcezza la rendessero così amabile da far venire voglia di abbracciarla. Ero comunque spaventato per il fatto che mi stesse lasciando.

Quando riaprii gli occhi lei si trovava lì, col mio cappotto sul braccio. Aveva trovato parecchio denaro, disse, e l’aveva preso tutto con sé. Non aveva mai visto tanti rotoli e mazzette. Che persona strana ero. In tutto, c’erano circa ventottomila dollari. All’albergo, aveva saldato il conto. Si erano preoccupati per me, vedendomi fuggire nella neve. Le avevano fatto firmare una ricevuta per tutto. Mi diede il pezzo di carta come se fosse una cosa importante. Aveva con sé le altre mie cose, i vestiti che avevo comprato e che erano ancora nei sacchetti e nelle scatole.

Volevo ringraziarla. Ma con quali parole? L’avrei fatto una volta che fossi tornato da lei dentro il mio vecchio corpo.

Quando ebbe riposto tutti i miei abiti, preparò per entrambi un semplice pasto: brodo e pane col burro. Lo consumammo insieme, accompagnando il tutto con una bottiglia di vino. Io bevvi più di quanto lei ritenesse opportuno. Devo ammettere che quel pane, quel burro e quel vino furono probabilmente il miglior cibo umano che avessi gustato fino ad allora. Glielo dissi. Ma volevo più vino, perché quell’ebbrezza era qualcosa di davvero sublime.

«Perché mi hai portato qui?» le chiesi.

Si sedette sul lato del letto, con gli occhi rivolti al fuoco, e giocherellò coi capelli, senza guardarmi. Cominciò a spiegarmi di nuovo il problema del sovraffollamento dell’ospedale e dell’epidemia.

«No, davvero: perché l’hai fatto? Là c’erano molte altre persone.»

«Perché tu eri diverso da chiunque altro abbia mai conosciuto», rispose. «Mi fai venire in mente una storia che ho letto una volta… Parlava di un angelo costretto a scendere sulla terra con sembianze umane.»

Con una fitta di dolore, ricordai Raglan James mentre mi diceva che somigliavo a un angelo. Pensai all’altro mio corpo che se ne andava in giro per il mondo sotto la sua odiosa custodia.

Lei sospirò mentre mi guardava. Era confusa.

«Quando tutto questo sarà finito, io tornerò da te nel mio vero corpo», spiegai. «Mi rivelerò a te. È importante che tu ti renda conto di non essere stata ingannata. E poi tu sei così forte che la verità non ti ferirà.»

«La verità?»

Le spiegai che, spesso, quando mostravamo la nostra vera natura agli umani, questi impazzivano, poiché noi eravamo esseri soprannaturali, benché non sapessimo dell’esistenza di Dio o del Diavolo. In sintesi, eravamo come un’apparizione religiosa senza rivelazione, un’esperienza mistica senza un nucleo di verità.

Lei era affascinata. Una luce sottile pervase i suoi occhi. Mi chiese di spiegarle come apparivo nell’altra forma.

Le descrissi com’ero stato trasformato in un vampiro all’età di vent’anni. Ero alto per quell’epoca, biondo e con gli occhi chiari. Le raccontai ancora di quando mi ero bruciato la pelle nel deserto dei Gobi. Temevo che il Ladro di Corpi avesse intenzione di tenere il mio corpo per sempre. Forse se n’era andato da qualche parte, nascosto dal resto della congrega, mentre tentava di perfezionare l’uso dei miei poteri.

Mi chiese di descriverle com’era volare.

«È più o meno come galleggiare. Quando lo si desidera, ci s’innalza, spingendosi nella direzione in cui si desidera andare. È una sfida alla forza di gravita, molto diversa dal volo delle creature naturali. Fa paura. Fra tutti i poteri che possediamo, è il più spaventoso, e credo che ci faccia del male più di ogni altro: ci riempie di disperazione. È la prova definitiva che non siamo esseri umani. Forse temiamo che una notte ci capiti di lasciare la terra senza però riuscire a tornarvi.»