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Pensai al Ladro di Corpi che faceva uso di quel potere. L’avevo visto già coi miei occhi.

«Non so come ho potuto essere così stupido da lasciargli prendere un corpo forte come il mio», dissi. «Ero accecato dal desiderio di diventare umano.»

Lei si limitava a guardarmi. Teneva di fronte a sé le mani giunte e mi osservava in tutta calma e tranquillità coi grandi occhi verdi.

«Tu credi in Dio?» chiesi, indicando il crocifisso sul muro. «Credi in quei filosofi cattolici di cui tieni i libri sullo scaffale?»

Lei riflette per un lungo momento. «Non nel modo in cui tu intendi», rispose.

Sorrisi. «E come, allora?»

«Fin da quando ricordo, la mia vita è stata caratterizzata da un’assoluta abnegazione. È questo ciò in cui credo: devo fare ogni cosa in mio potere per alleviare le sofferenze altrui. È tutto ciò che posso fare, ed è un compito immane. È un grande potere, come lo è il potere che hai tu di volare.»

Ero confuso. Mi resi conto di non aver mai pensato al lavoro di un’infermiera come a qualcosa che avesse a che fare col potere. Ma compresi il suo punto di vista.

«Tentare di conoscere Dio può essere interpretato come un peccato di superbia o una mancanza di fantasia», riprese. «Ma noi sappiamo distinguere la sofferenza, quando la vediamo. Riconosciamo la malattia, la fame, la privazione. Io cerco di alleviare queste cose. È il baluardo della mia fede. Comunque, per rispondere alla tua domanda, sì, io credo in Dio e in Cristo. Come ci credi tu.»

«No, io non ci credo», obiettai.

«Quando avevi la febbre ci credevi. Hai parlato di Dio e del Diavolo in un modo che non avevo mai sentito prima.»

«Ho parlato di noiose questioni teologiche», replicai. «No, tu hai parlato della loro irrilevanza.»

«Credi?»

«Sì. Sai riconoscere il bene, quando lo vedi. Hai detto di saperlo fare. E anch’io. Tutta la mia vita è stata dedicata al tentativo di fare questo.»

Sospirai. «Sì, lo vedo», dissi. «Credi che sarei morto se tu mi avessi lasciato in ospedale?»

«Forse», rispose. «Sinceramente non lo so.» Era molto piacevole rimanere anche solo a guardarla. Aveva un viso largo, molto lontano dal genere di bellezza elegante e aristocratico. Eppure era davvero molto bella. E gli anni con lei erano stati clementi, le angosce e le preoccupazioni non l’avevano consumata.

Percepivo in lei una latente, tenera sensualità, qualcosa di cui lei non si fidava, né alimentava.

«Spiegamelo ancora», disse. «Hai raccontato di essere stato un cantante rock perché volevi fare del bene… Intendevi essere buono diventando un simbolo del male? Dimmi qualcosa di più.»

Acconsentii. Le spiegai come fossi riuscito in quell’intento mettendo insieme una band, i Satan’s Night Out. Le dissi anche che avevo fallito: c’era stato un conflitto fra quelli della nostra specie e io stesso ero stato trascinato via con la forza, ma l’intera débàcle si era conclusa senza rottura nel tessuto logico del mondo mortale. Ero stato costretto a essere di nuovo invisibile e a occuparmi di cose senza importanza.

«Non c’è spazio per noi sulla terra», dissi. «Forse però un tempo c’era… Non so. Il fatto che noi esistiamo non è una giustificazione. I cacciatori avevano allontanato i lupi dal mondo. Mi ero convinto che, se avessi rivelato la nostra esistenza, quei cacciatori avrebbero escluso dal mondo anche noi. Ma le cose non dovevano andare così. La mia breve carriera fu una sequela d’illusioni. Nessuno crede in noi, com’è destino che sia. Forse noi dobbiamo morire nella disperazione, svanire dal mondo molto lentamente… Però io non riesco a sopportarlo. Non posso tollerare di scomparire nel nulla, di uccidere traendone godimento, di vedere intorno a me le creazioni e i traguardi raggiunti dai mortali senza farne parte, essendo anzi Caino, il solitario Caino. Perché è questo, vedi, il mondo che mi appare: ciò che i mortali fanno e hanno fatto. Non è affatto il grande mondo della natura. Se lo fosse, allora forse da immortale avrei avuto momenti migliori. Si tratta invece delle opere dei mortali: i quadri di Rembrandt, i monumenti di Washington sotto la neve, le grandi cattedrali. Noi siamo per sempre esclusi da quelle grandi cose, e tuttavia le vediamo coi nostri occhi di vampiro.»

«Perché hai scambiato il tuo corpo con quello di un mortale?» chiese.

«Per camminare ancora, almeno per un giorno, nella luce del sole. Per pensare, sentire e respirare come un mortale. Forse per verificare una convinzione.»

«Quale?»

«Che essere di nuovo mortali fosse ciò che tutti noi volevamo, che ci dispiaceva avervi rinunciato, che l’immortalità non valeva la perdita delle nostre anime umane. Ma ora so che sbagliavo.»

D’un tratto pensai a Claudia e ai miei sogni febbricitanti. Una sensazione di placida quiete s’impadronì di me. Quando parlai di nuovo fu per un tranquillo atto di volontà. «Preferisco essere un vampiro», dichiarai. «Non mi piace essere mortale. Detesto essere debole, ammalato, fragile, provare dolore. È orribile. Voglio indietro il mio corpo non appena riuscirò a riprenderlo a quel ladro.»

Ciò parve sconvolgerla. «Eppure, quando sei nell’altro corpo, uccidi e bevi sangue umano, e tu odi tutto ciò, come odi te stesso.»

«Io non lo odio. E non odio me stesso. Non capisci? È questa la contraddizione: io non ho mai odiato me stesso.»

«Tu mi hai detto di essere il male, aggiungendo che, aiutandoti, io aiutavo il Diavolo. Non potresti dire queste cose se tu non lo odiassi.»

Io non risposi subito. Poi dissi: «II mio peccato più grande è, essendo quello che sono, che mi sono sempre divertito. La mia colpa c’è sempre, come c’è la ripugnanza morale per me stesso. Eppure mi diverto. Io sono forte, sono una creatura quasi eroica, dotata di una grande passione. Vedi, è questo il nocciolo del mio dilemma: come può piacermi tanto essere un vampiro, se tutto ciò è male? Già, ma è una vecchia storia. Lo sanno bene gli uomini che vanno in guerra: prima si dicono che è per una giusta causa, poi provano l’eccitazione che deriva dall’uccidere l’altro, come se fossero bestie. E le bestie, come i lupi, conoscono quella sensazione, l’euforia pura che scaturisce dallo sbranare la preda. Io la conosco».

Per parecchio tempo sembrò assorta nei suoi pensieri. Allora le toccai la mano. «Vieni, sdraiati e dormi», dissi. «Ancora una volta, qui accanto a me. Non ti farò male. Non posso, sono troppo malato.» Sorrisi. «Tu sei molto bella», aggiunsi. «Non potrei pensare di farti del male. Voglio solo starti vicino. Tra poco sarà di nuovo notte fonda, e io vorrei che tu ti sdraiassi qui con me.»

«Terrai fede alla tua parola, vero?»

«Certamente.»

«Ti rendi conto che sei come un bambino? C’è una grande semplicità in te. La semplicità di un santo.»

Risi. «Carissima Gretchen, come ti stai ingannando sul mio conto! D’altra parte, tuttavia, forse non è così. Se credessi in Dio crederei nella salvezza: in tal caso penso che sarei davvero un santo.»

Riflette per un bel po’, poi prese a raccontarmi a bassa voce che, soltanto un mese prima, aveva chiesto un periodo di aspettativa per il suo impegno nelle missioni. Dalla Guyana Francese era venuta a Georgetown per studiare all’università e lavorare all’ospedale solo come volontaria. «Sai qual è la vera ragione per cui ho chiesto un congedo?» mi chiese.

«No, dimmelo.»

«Volevo conoscere un uomo, provare il calore di stare vicino a qualcuno. Una volta soltanto… ma volevo sapere che cosa significava. Ho quarant’anni e non ho mai… conosciuto un uomo. Tu hai parlato di ripugnanza morale. Io avevo ripugnanza per la mia verginità, per l’assoluta perfezione della mia purezza. Mi sembrava una cosa vile, al di là di quello che si potesse pensare.»