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Era stata un’unione? Eravamo stati tutt’uno in quel silenzio carico di rumore?

Io non credo. Al contrario, sembrò una separazione tra le più violente: due esseri opposti che si erano gettati l’uno nelle braccia dell’altro con ardore e impaccio, con fiducia e minaccia, mentre i sentimenti dell’uno rimanevano inconoscibili e impenetrabili all’altro. Un’esperienza dolce e terribile nella sua brevità, solitaria e dolorosa nel suo innegabile fuoco.

E lei non mi era mai apparsa così fragile come in quel momento, con gli occhi chiusi e il capo girato contro il cuscino, col petto non più palpitante, ma immobile. Sembrava un’immagine che istigava alla violenza, un invito alla più perversa crudeltà presente nel cuore dell’uomo.

Perché tutto ciò?

Non volevo che un altro essere mortale la toccasse, né che lei venisse segnata dalla sua stessa colpa. Non volevo pentirmi per averla ferita o per averla costretta ad accostarsi alla malvagità della mente umana.

E solo in quel momento ripensai al Dono Tenebroso, e non a Claudia, bensì al dolce, splendido e vibrante momento in cui avevo creato Gabrielle. Dopo quella volta, ormai lontana nel tempo, Gabrielle non si era mai voltata indietro. Ammantata di forza e sicurezza, si era messa a girovagare, senza mai soffrire, nemmeno per un’ora, senza avvertire scrupoli morali, mentre correva incontro alle infinite complessità del grande mondo.

Ma chi poteva dire che cosa avrebbe dato il Dono Tenebroso a ogni anima umana? E quella donna, una creatura virtuosa che credeva nelle antiche e spietate divinità, ebbra del sangue dei martiri e delle esaltanti sofferenze di migliaia di santi, lei di certo non avrebbe mai chiesto o accettato il Dono Tenebroso. Non più di quanto avrebbe fatto David.

Ma cosa importava tutto ciò se lei non si rendeva conto che le mie parole corrispondevano a verità? E cosa sarebbe successo se io non fossi riuscito a darle una prova della verità? E che cosa sarebbe successo se non avessi mai più avuto il Sangue Tenebroso dentro di me e fossi rimasto intrappolato per sempre in quella carne mortale? Me ne stavo disteso tranquillo a guardare la luce del sole riempire la stanza. Colpì il piccolo corpo del Cristo crocifisso appeso sulla libreria per poi ricadere sulla Vergine dal capo chino.

Stretti l’uno all’altra, dormimmo ancora.

16

Mezzogiorno. Indossavo i vestiti nuovi e puliti che avevo comprato nell’ultimo, fatidico giorno del mio vagabondaggio: una morbida polo bianca a maniche lunghe con un paio di jeans sbiaditi all’ultima moda.

Avevamo preparato una specie di picnic davanti a un piccolo fuoco scoppiettante. Seduti su una coperta bianca distesa sulla moquette, consumavamo una tarda prima colazione, mentre Mojo pranzava con tipica foga canina sul pavimento della cucina. Ancora una volta c’erano pane francese e burro, succo d’arancia, uova alla coque e frutta tagliata a grandi fette. Mangiavo di nuovo con appetito, ignorando i suoi avvertimenti riguardo al fatto che non mi fossi ancora ristabilito del tutto. Stavo piuttosto bene, come confermava persino il suo piccolo termometro digitale.

Sarei dovuto partire per New Orleans. Se l’aeroporto fosse stato aperto, avrei potuto raggiungerlo per l’imbrunire, forse. Ma non volevo lasciarla. Chiesi un po’ di vino. Avevo voglia di parlare e volevo capirla. E avevo anche paura di lasciarla, di ritrovarmi solo senza di lei. L’idea del viaggio in aereo mi colmò l’animo di vile timore. Inoltre, mi piaceva stare con lei…

Lei aveva preso a discorrere con agio della sua vita nelle missioni, di come l’avesse amata fin dall’inizio. Aveva trascorso i primi anni in Perù, poi nello Yucatàn. Il suo incarico più recente era stato nella giungla della Guyana Francese, un luogo in cui vivevano alcune tribù d’indiani. La missione, St. Margaret Mary, si trovava a sei ore di viaggio in canoa a motore dalla città di St. Laurent lungo il fiume Maroni. Lei e le altre sorelle avevano rimesso a nuovo la cappella di cemento, la piccola scuola imbiancata e l’ospedale. Ma avevano dovuto lasciare non poche volte la missione per andare dalla gente, nei loro villaggi. Amava quel lavoro, disse.

Distese davanti a me una serie di fotografie, piccole immagini rettangolari e colorate che ritraevano i rozzi edifici della missione, lei con le altre suore e il prete che andava a dire messa. Nessuna delle suore laggiù portava il velo o l’abito: si vestivano in kaki o cotone bianco, e tenevano i capelli sciolti. Erano vere suore lavoratrici, spiegò. Ed eccola in quelle immagini: appariva radiosamente felice, senza traccia di quella malinconia assorta che adesso rivelava. Un’istantanea la coglieva circondata da indiani dalle facce scure, davanti a un piccolo e curioso edificio con le pareti ornate di elaborati intagli. Un’altra fotografia la riprendeva invece nell’atto di fare un’iniezione a un uomo anziano, magro come uno spettro, che stava a sedere su una sedia dallo schienale dritto, dipinta a colori vivaci.

La vita in quei villaggi della giungla era rimasta uguale per secoli, mi spiegò. Quella gente si trovava lì molto tempo prima che i francesi o gli spagnoli mettessero piede in Sudamerica. Era difficile convincerla a fidarsi delle suore, dei medici e dei preti. Dal canto suo, a lei non importava se quelle persone imparavano le loro preghiere: le interessavano piuttosto le vaccinazioni e la corretta pulizia delle ferite infette. Le premeva rimettere a posto gli arti rotti, così che gli uomini non rimanessero storpi per sempre. Naturalmente volevano che lei tornasse. Erano stati molto pazienti col suo breve congedo. Avevano bisogno di lei. Il lavoro l’aspettava. Mi mostrò il telegramma che avevo già notato attaccato alla parete sopra lo specchio del bagno. «Ti manca, è chiaro», dissi.

La stavo studiando, cercando di capire se si sentisse colpevole per ciò che avevamo fatto insieme. Ma non mi sembrava. Non pareva tormentata da sensi di colpa, nemmeno in relazione al telegramma.

«Ci tornerò, ovvio», disse con semplicità. «Può sembrare assurdo, però è stato difficile partire. Ma la questione della castità era diventata una specie di ossessione distruttiva.» La capivo.

Lei si limitava a fissarmi con i suoi grandi occhi placidi. «Ora sai che non è poi così importante dormire con un uomo», mormorai. «Non è questo ciò che hai scoperto?»

«Forse», rispose, con un timido sorriso. Come sembrava forte, seduta lì sulla coperta, con le gambe piegate pudicamente da un lato e i capelli ancora sciolti, più simili al velo di una suora che in una qualsiasi delle fotografie. «Com’è cominciata?» chiesi.

«Credi che sia importante?» ribatté. «Non penso che approverai la mia storia, se te la racconto.»

«Voglio sapere.»

Figlia di un’insegnante cattolica e di un ragioniere del quartiere di Bridgeport, a Chicago, aveva dimostrato un grande e precoce talento per il pianoforte. L’intera famiglia si era sacrificata per farle prendere lezioni con un famoso maestro.

«Spirito di sacrificio fin dall’inizio, vedi», disse con un vago sorriso. «Solo che all’epoca si trattava di musica, non di medicina.»

Anche allora tuttavia era profondamente religiosa: leggeva le vite dei santi sognando di diventare santa lei stessa e di lavorare nelle missioni una volta diventata adulta. Santa Rosa da Lima la affascinava in modo particolare. E così anche l’affascinavano san Martino de Porres, che era rimasto a più stretto contatto col mondo, e santa Rita. Decise che si sarebbe occupata dei lebbrosi, lavorando con indefessa determinazione, quasi eroicamente. Quand’era ragazza, aveva costruito dietro la casa un piccolo altare, e rimaneva inginocchiata per ore davanti al crocifisso, sperando che nelle sue mani e nei suoi piedi si aprissero le stimmate del Cristo.