«Presi molto sul serio quelle storie», disse. «I santi sono reali per me, come lo è la possibilità di compiere atti eroici.»
«Atti eroici», ripetei. Anch’io avevo parlato di eroismo, ma in modo molto diverso. Non la interruppi.
«Mi pareva tuttavia che suonare il pianoforte fosse in conflitto con la mia anima spirituale. Volevo rinunciare a tutto per gli altri, e ciò significava soprattutto rinunciare al pianoforte.»
Ciò mi rattristò. Parlava in tono sommesso: ebbi la sensazione che non avesse raccontato spesso quella storia.
«Ma che cosa mi dici della felicità che donavi agli altri quando suonavi?» chiesi. «Non aveva un valore reale, concreto?»
«Ora posso affermare che lo aveva», rispose a voce sempre più bassa, scandendo le parole con dolorosa lentezza. «Ma allora non ne ero sicura. Non ero la persona adatta a mettere a frutto quel talento. Non mi dava fastidio che mi ascoltassero, ma non mi piaceva essere guardata.» Mentre posava gli occhi su di me, arrossì un poco. «Forse, se avessi suonato con un coro, o dietro un paravento, sarebbe stato diverso.»
«Capisco… Naturalmente esistono esseri umani fatti in questo modo.»
«Ma non è il tuo caso, vero?»
Scossi la testa.
Spiegò come fosse straziante per lei doversi vestire di merletti bianchi e suonare davanti a un pubblico. Lo accettava per far piacere ai suoi genitori e agli insegnanti. Partecipare ai vari concorsi era un’agonia, anche se quasi sempre vinceva. Non aveva ancora sedici anni, eppure la sua carriera era diventata una sorta d’impresa a gestione familiare.
«Ma la musica, di per sé, non ti piaceva?» Riflette un attimo, poi rispose: «Era un’assoluta estasi. Quando suonavo da sola… con nessuno che mi guardasse, mi perdevo nella musica. Mi sentivo come sotto l’influenza di una droga. Era… quasi erotico. A volte le melodie mi ossessionavano, continuavo a pensarci. Suonando, perdevo la nozione del tempo. Ancora adesso non riesco ad ascoltare la musica senza lasciarmi trasportare. Qui non ci sono né radio né registratori. Non posso più tenere cose simili, ora».
«Ma perché negarti questo piacere?» Mi guardai intorno. Non c’era neppure un pianoforte in quella stanza.
Scosse energicamente la testa. «L’effetto sarebbe troppo travolgente, non capisci? Riuscirei a dimenticare tutto con eccessiva facilità. E, se ciò succedesse, tutto si fermerebbe, la vita rimarrebbe in sospeso, per così dire.»
«Ma, Gretchen, dici sul serio?» chiesi. «Per alcuni di noi le sensazioni così intense sono la vita! Noi cerchiamo l’estasi. In quei momenti, noi… trascendiamo tutto il dolore, le meschinità e le fatiche. Era così per me quand’ero vivo. Ed è così ora.»
Riflette sulle mie parole. Quando parlò, lo fece con placida convinzione. «Io voglio qualcosa di più», disse. «Voglio qualcosa di più tangibile e costruttivo. Ma, per dirla diversamente, non posso godere di un piacere simile se altri patiscono la fame, soffrono o sono malati.»
«Ma nel mondo ci sarà sempre quel genere di miserie. E la gente ha bisogno della musica, Gretchen, ne ha bisogno almeno quanto ne hai di conforto o di cibo.»
«Non credo di potermi dire d’accordo. Anzi sono certa di non esserlo. Io devo passare la vita ad alleviare le sofferenze altrui. Credimi, ci ho riflettuto a lungo.»
«Ma scegliere di fare l’infermiera invece di essere una musicista è incomprensibile, per me. Certo, fare l’infermiera è una buona cosa…» Ero troppo rattristato e confuso per continuare. «Come hai fatto ad arrivare davvero a questa scelta?» chiesi poi. «La tua famiglia non ha provato a fermarti?»
Quando aveva sedici anni, la madre si era ammalata e per mesi nessuno era riuscito a capire quale fosse la causa della malattia. La madre era anemica, aveva costantemente la febbre e alla fine apparve evidente che stava morendo di consunzione. Nonostante le analisi, i medici non riuscivano a trovare spiegazioni convincenti. Erano comunque certi che la donna sarebbe morta. L’atmosfera in casa era avvelenata dal dolore, oltre che dall’amarezza.
«Chiesi a Dio di compiere un miracolo», disse. «Promisi che non avrei mai più toccato i tasti di un pianoforte per il resto dei miei giorni, se solo avesse salvato mia madre. Promisi che sarei entrata in convento non appena mi fosse stato possibile e che avrei dedicato la mia vita a prendermi cura dei malati e dei moribondi.»
«E tua madre è guarita.»
«Sì. Nel giro di un mese si era completamente ripresa. Adesso, dopo essere andata in pensione, ha organizzato una sorta di doposcuola per i bambini del quartiere nero di Chicago. E, tra l’altro, non si è più ammalata da allora.»
«E tu hai mantenuto la promessa, vero?»
Assentì. «Sono entrata a far parte delle Suore Missionarie quando avevo diciassette anni e loro mi hanno mandato al college.»
«E sei riuscita a tenere fede a quella promessa? Non hai più toccato un pianoforte?»
Annuì. Non c’era traccia di rimpianto in lei, né di bisogno di comprensione o di approvazione. Sapevo, infatti, che la mia tristezza le era evidente e che, se mai, Gretchen era un po’ preoccupata per me.
«Sei stata felice in convento?» le domandai.
«Oh, sì», esclamò, con una piccola alzata di spalle. «Non capisci? Una vita normale è impossibile per una persona come me.
Io devo fare qualcosa di difficile, devo correre rischi. Ho scelto di entrare in quell’ordine religioso perché le sue missioni sorgevano nelle zone più remote e impervie del Sudamerica. Non posso neppure cominciare a spiegarti quanto mi piaccia la giungla!»
Il suo tono di voce si fece basso e quasi pressante. «Non sono mai troppo calde o troppo pericolose per me. In certi momenti il lavoro è moltissimo, noi siamo esausti, l’ospedale è sovraffollato e i bambini ammalati vengono sistemati all’esterno, sotto le tettoie e sulle amache… Ebbene, in quei momenti io mi sento così viva! È difficile da spiegare. Mi fermo soltanto per asciugarmi il sudore dal viso, per lavarmi le mani, forse per bere un bicchiere d’acqua. E penso: sono viva, sono qui, sto facendo quello che conta davvero.» Sorrise di nuovo.
«È un altro genere d’intensità», ammisi. «È qualcosa di assai diverso dal fare musica. Ne afferro la fondamentale differenza.» Rammentai le parole che aveva usato David per descrivermi la sua giovinezza. David aveva cercato il brivido del pericolo; Gretchen aveva cercato quello dell’abnegazione. Lui aveva sfidato il rischio dell’occulto in Brasile, lei aveva cercato di sanare migliaia di uomini senza nome, di eterni poveri. Mi sentivo profondamente turbato.
«C’è anche una certa vanità in tutto ciò, naturalmente», riprese. «La vanità è sempre il nemico. Ciò che mi turbava di più della mia… castità era l’orgoglio che trovavo in essa. Ma, vedi, anche tornare negli Stati Uniti era un rischio. Ho avuto molta paura quando, scendendo dall’aereo, mi sono resa conto che, a Georgetown, nulla avrebbe potuto impedirmi di stare con un uomo, se lo avessi voluto. Credo di essere andata a lavorare all’ospedale sull’onda di quella paura. La libertà non è una cosa semplice.»
«Certo», ammisi. «Ma la tua famiglia come ha reagito alla tua rinuncia?»
«All’epoca non dissi nulla. Mi limitai ad annunciare la mia vocazione. Tenni duro: ci furono molte recriminazioni. Dopotutto, le mie sorelle e i miei fratelli avevano portato abiti di seconda mano perché io potessi prendere lezioni di pianoforte. Ma spesso succede così. Perfino nelle buone famiglie cattoliche, la notizia di una figlia che vuole farsi suora non è sempre accolta con abbracci e applausi.»